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«La politica dovrebbe valorizzare il talento e produrre ricchezza»

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PieroAngela ha le idee chiare in fatto di Paese Reale e le esprime nel libro «A cosa serve la politica?»: ne parlerà domani all'Ara Pacis, a RomaIncontra - kermesse ideata da Enrico e Iole Cisnetto - dialogando con Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. - Piero Angela, auspica un ritorno a una società primordiale? «No. C'è una puntata dedicata ai 150 anni dell'Unità d'Italia: 2/3 dell'Italia era nei campi. Analfabeta. La povertà era diffusa, i lutti si susseguivano, c'era poco cibo. La democrazia, in fondo, è figlia dello sviluppo». - Quanto conta l'impegno della politica nell'educazione? «L'educazione è alla base dello sviluppo. Se noi prendessimo 2 milioni di olandesi rimasti senza terra dopo un'inondazione e li portassimo in una zona disabitata tornando dopo 25 anni ci sarebbero i loro scheletri o università e campi da tennis? Io sono per la seconda ipotesi. La politica è importante solo se riesce a sviluppare la società». - Cosa fa la politica? «Un Paese si basa su 2 grandi pilastri: uno è la produzione di ricchezza, l'altro è la distribuzione della ricchezza. La ricchezza però bisogna crearla con la forza produttiva del Paese». - Il governo passato come si è comportato? «Le persone pensano che cambiando leader cambi il Paese ma non è così. Bisogna poter sviluppare una nazione». - Cosa bisognerebbe fare per giovani e giovanissimi? «Rendere più efficace il Paese, agire sulla ricerca e sull'innovazione. Una società avanzata e competitiva deve reggere il confronto con gli altri. Privilegiare i nostri prodotti». - Valorizzare il made in Italy? «Certo ma non basta, dobbiamo alzare la qualità e l'unicità dei prodotti». - I giovani sono pronti a quelle che lei chiama le "Olimpiadi del sapere"? «Vediamo i risultati scolastici rilevati dalle agenzie internazionali che valutano la resa scolastica a 15 anni: noi siamo in coda ai Paesi Europei. Nel mondo? Tra i primi 5, 4 ci sono Paesi asiatici». - Educazione e ricerca: è questa la base della sua ricetta contro la crisi? «Non c'è ricetta. Bisogna avere un atteggiamento di maggiore serietà e impegno nel merito. Lo stesso discorso vale per la tv». - Lei dice: un unico canale pubblico non sarebbe possibile. Perché, ad esempio, non avrebbe ascolti. «Io faccio l'esempio francese. È stata tolta la pubblicità nel prime time. E se uno non ha la necessità di fare ascolti, non ha neanche la necessità di fare programmi che a tutti i costi vadano alla ricerca delle emozioni e che scendano in basso». - Tralasciando Berlusconi, che effetto le hanno fatto i sorrisetti tra la Merkel e Sarkozy? «Be', ogni Paese ha la reputazione data dai suoi conti pubblici. Se avessimo avuto i conti pubblici in regola non avremmo avuto quei sorrisetti. Feci un programma in prima serata, in tv e negli anni '80 sull'economia. A più riprese osservai la perversione del meccanismo del debito pubblico anni '70-'80. Andava bene a tutti, nessuno ha mai parlato di questa spirale che porta al fallimento». - Eppure c'è chi auspicava uno Stato, diciamo così, sempre "in rosso". «Tutti facciamo debiti, per la casa, per il negozio. Lo Stato lo fa per le opere pubbliche. Ma quelli sono investimenti: e l'economia gira. Ma il nostro debito era per vivere al di sopra dei propri mezzi. Nessuno si sognerebbe di farlo a casa propria». - Quando si stava peggio il 60% degli sposi e il 79% delle spose era analfabeta. La cultura deve essere elitaria o accessibile a tutti? «Il Rinascimento è stato fatto da alcune centinaia di persone, forse qualche migliaio. Mercanti, artisti, artigiani. Oggi viviamo in una società in cui i governi sono scelti da elezioni popolari. Avere una cultura scientifica ed economica è importante. Diffondere la conoscenza è infatti utile per il Paese».

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