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di Marco Patricelli Né sante né puttane.

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Trascinatedai vortici della storia, inseguendo un destino a volte subìto a volte scelto: sono le brigantesse, l'altra metà del cielo della faccia oscura dell'unità nazionale, spregiativamente etichettate dai "piemontesi", vessate in vita e nella morte. Pallidi dagherrotipi della seconda metà dell'800 ci restituiscono figure fiere e ricostruite per accontentare i palati di chi sui giornali cercava facili emozioni; altre fotografie ci mostrano la gallerie degli orrori di capi mozzati e di donne spogliate dopo essere state uccise dai soldati. Giordano Bruno Guerri, con «Il bosco nel cuore - Lotte e amori delle brigantesse che difesero il sud» (Mondadori, pp. 224, euro 20), aggiunge un capitolo e completa così il quadro aperto lo scorso anno con «Il sangue del Sud». Aveva lasciato di proposito aperto uno spiraglio nella narrazione del brigantaggio e della «saldatura a freddo» dei due lembi dell'Italia, perché riteneva che le figure delle donne andassero raccontate a parte, pur entrando a pieno titolo in una storia fatta più di ombre che di luci, e dove le tinte sono assai poco nette. Se c'è una riscrittura della storia, essa riguarda l'agiografia che ha addomesticato le coscienze impedendo di fare i conti con il passato: non si doveva parlare male di Garibaldi, Cavour era un padre della patria, Vittorio Emanuele II «il re galantuomo» e per l'ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie bastava quel «Franceschiello» con cui lo chiamava il padre. Uno stato, quello dei gigli borbonici napoletani, annichilito dall'invasione da sud delle camicie rosse e delle promesse garibaldine, e da nord dall'esercito blu dei Savoia. Italiani contro italiani, che parlavano lingue diverse, non si comprendevano e avrebbero faticato non poco a capirsi nei decenni a seguire. Non era certamente il regno del bengodi, quello retto per poco tempo da Francesco II di Borbone, ma non era neppure «la negazione di Dio eretta a sistema di governo» come era comodo tacciarlo sbrigativamente per esaltare l'epopea risorgimentale. Dopo il 1860 sarebbe stato depredato di quello che di buono aveva, facendo affiorare forse il peggio, in un bagno di sangue e di atrocità che faceva impallidire le cifre dei caduti delle guerre di indipedenza. Ingredienti forti, miscelati da Guerri che, con questo libro che guarda il Risorgimento con gli occhi delle donne che non lo compresero e non lo accettarono (e di alcune che vi credettero), intende «restituire umanità e dignità alle vittime, condannate all'oblio dalla cattiva coscienza dei fondatori della patria o recentemente esaltate da chi ha voluto sfruttare gli errori commessi dopo l'unità per mitizzare il passato borbonico, e accentuare divisioni antiche. Il ceto politico piemontese non fu mai sfiorato dal dubbio che la reazione – forte quanto inaspettata - di quegli "incivili" fosse causata proprio da un approccio repressivo, dal rifiuto aprioristico delle differenze, da un atteggiamento di spocchiosa superiorità. Non si capì che il Sud poteva essere Italia senza diventare terra di conquista». I briganti erano i "resistenti" per antonomasia. Resistevano al nuovo nell'unico modo possibile: la violenza; furono schiacciati nell'unico modo che si riteneva possibile, perché il più facile: la violenza. Non fu solo storia di uomini. Chi furono, allora le brigantesse? Vittime o carnefici? Drude (parola allora di moda) assatanate o amanti disposte al massimo sacrificio? Sanguinarie che attingevano al peggior repertorio maschile o donne capaci di soffrire e combattere? Non si battevano per il sud ma per non far spezzare gli antichi equilibri, neppure quello della sottomissione cui erano in qualche modo rassegnate, intravedendo uno spiraglio di riscatto proprio mettendosi al di fuori della legge e della società. Avevano un solo mondo di riferimento: il loro. Torturate, imprigionate, processate, condannate a volte anche per sospetto, comprate e vendute, violate e innamorate, fedelissime e delatrici, furbe e ingenue. Capaci di perdonare o di strappare un cuore dal petto e addentarlo ancora palpitante come Francesca La Gamba; o uccidere la sorella con 48 colpi di scure come Maria Oliverio detta "Ciccilla", unica a essere condannata alla pena capitale (commutata in ergastolo); o a mostrarsi più coraggiose, più combattive e più determinate degli uomini, di cui indossavano i vestiti rinunciando alla loro femminilità. Nei boschi dove avevano portato il corpo e il cuore. Imboscate ed eccidi, rapimenti e "sindromi di Stoccolma", stupri ed evirazioni, violenze e solidarietà, gesti draconiani e gesti nobili, ignoranza e superstizioni, umanità e crudeltà: ribolle di tutto nel pentolone della storia del brigantaggio, da una parte e dall'altra. Guerra senza pietà, con la sospensione dei diritti civili, di un esercito moderno contro bande di guerriglieri. E delle loro donne, immortalate con compiacimento dai corrispondenti: Reginalda Cariello fotografata in posa, nella messinscena mediatica a uso e consumo dei giornali; la testa spiccata dal busto di Giuseppina Spina; Michelina De Cesare giustiziata e denudata prima di essere legata per i piedi a un carro e trascinata così in paese, perché i sindaci si litigano l'"onore" di mettere in esposizione il cadavere di briganti e brigantesse. Guerri, col consueto stile scorrevole che evoca il romanzo più che il saggio storico, coniuga leggerezza narrativa a rigore e stuzzica i più giovani agli approfondimenti allegando alla bibliografia scientifica un'ampia sitografia. Basta mettersi di fronte a un computer e navigare sul web senza rischiare di perdere la bussola.

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