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Almodòvar: «Il futuro? Chirurgia e transgenesi»

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Una storia kafkiana con citazioni hitchcockiane per un horror-thriller estremo che racconta la vendetta di un padre sconvolto dal suicidio di sua figlia in seguito a uno stupro subito. Dal gotico al noir, con una cifra estetica impeccabile, Pedro Almodòvar torna a dirigere il suo attore feticcio Antonio Banderas (21 anni dopo «Legami») in «La pelle che abito», già presentato al festival di Cannes e da domani distribuito da Warner in 300 sale. Ispirata al romanzo «Tarantola» di Thierry Jonquet, la pellicola racconta di un eminente chirurgo plastico (Banderas) che nel suo laboratorio è riuscito a riprodurre una pelle più resistente. Per i suoi esperimenti, il medico ha una cavia umana (Elena Anaya), una ragazza reclusa per sei anni nella sua villa, sorvegliata dalla governante (Marisa Paredes) e spiata dallo stesso chirurgo grazie a un maxi video. Un film d'amore, orrore e vendetta che rievoca «La donna che visse due volte» di Hitchcock, ma anche «Frankenstein» di Mary Shelley, gli «Occhi senza volto» di George Franju, tra citazioni di Luis Bunuel, Fritz Lang e del «Borghese piccolo piccolo» di Monicelli. «Il mio non è un film estremo e ho evitato atmosfere splatter - sottolinea Almodòvar - Semmai è serio e austero e tratta dell'abuso di potere, dell'importanza dell'identità, al di sopra di tutto, intangibile, incorporea, identità che va oltre i genitali che ci si ritrova dalla nascita. Il futuro dell'umanità cambierà totalmente entro la fine del secolo: la scienza è incontenibile, la transgenesi riguarda ormai tutto, anche se la bioetica chiude le porte a esperimenti sull'essere umano, mentre in Usa la transgenesi nell'alimentazione è già una realtà. La speranza è che gli scienziati non siano malvagi, altrimenti tutto diventerà molto pericoloso. La cultura, insieme con la religione, saranno alla fine in concorrenza con la creazione umana. Riguardo la chirurgia estetica, una volta in Spagna si diceva che il volto era lo specchio dell'anima, ora non è più così. Il mio film è ispirato a un vero chirurgo estetico spagnolo che ha abbandonato le operazioni legate alla vanità per dedicarsi al trapianto dei volti, un campo in cui la Spagna è pioniera. Qualche anno fa, su Vanity Fair, ho visto le foto delle tre donne di Presley, la mamma, la moglie e la figlia e la prima sembrava più giovane della nipote. Sull'argomento si potrebbe fare una sit-com del tipo "Donne disperate e in crisi di nervi per trovare soldi per un'operazione chirurgica"». Almodòvar, che con questa pellicola corre per gli Oscar con altri due film spagnoli, ha in cantiere due sceneggiature, «una di queste è una commedia». Antonio Banderas, ieri sulla terrazza di Civita a Piazza Venezia con il regista e l'attrice Anaya, è apparso più in forma che mai con il suo completo jeans e i capelli con taglio Marines. Il divo, che ha appena finito di girare «Haywire» di Soderbergh, elogia l'amico regista che trent'anni fa lo lanciò nel «Labirinto di passioni»: «Pedro è uno che rompe le regole del genere e gli schemi del cinema, con questo film ha rischiato più del solito perché si è sporcato le mani, è questa la sua vera creatività. Nel mio personaggio di chirurgo estetico c'è una sottile linea tra il mostro psicopatico e il medico, tra l'artista e il creatore. Come in una metafora artistica, è uno che s'innamora dell'opera che ha creato: è come se il vostro Leonardo da Vinci a un certo punto fosse andato a letto con la sua Gioconda. Con Pedro ho fatto sei film e solo con lui mi lancio nel vuoto senza rete, è un regista che vuole ancora esplorare: ora è più minimalista nella forma, più pulito dal punto di vista concettuale e più profondo nei contenuti».

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