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Il cuore batte per Bossi. Causa film retorico

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Nonce lo saremmo mai immaginato, noi, fiorentini di nascita, toscani di lingua, italiani convinti, per identità e per cultura, di andare a vedere un film e, dopo la proiezione, venir via con una forte simpatia interiore verso la Lega, il partito di Umberto Bossi che ama mostrare (ogni tanto) il dito medio e dell'Alberto da Giussano con lo spadone. Ed invece ci è capitato, dopo aver visto «Cose dell'altro mondo», pellicola di Francesco Patierno, con Diego Abatantuono nei panni di un imprenditore del nordest che non ama gli immigrati. Si tratta di un film retorico, dove l'imprenditore che non ama i neri la sera va poi a consolarsi con una giovane donna di colore, prostituta. Dove un giovane italiano (interpretato da Valerio Mastrandrea) si riavvicina alla ex fidanzata e scopre che si è messa con un ragazzo di colore (pure lui) di cui è incinta. Dove un tassista calvo e antipatico ce l'ha con gli immigrati. L'elemento narrativo che colpisce, in questo film, è il manicheismo che emerge, nitido, quando d'improvviso, nella cittadina del nord est dove si svolge il racconto, non si trova più un immigrato. Tutti scomparsi: non c'è una colf, non ci sono gli operai delle fabbriche, non ci sono quelli che fanno il pane. E gli italiani, come dei bambini a cui hanno tolto il giocattolo, appaiono straniati, confusi, in difficoltà. Gli anziani seduti in piazza senza più nessuno che li guardi; le fabbriche semideserte e quasi ferme. La simpatia verso la Lega scatta quasi subito perché pure nel cinema americano degli anni Quaranta, quando gli Stati Uniti erano un paese in guerra, «i cattivi» non erano così cattivi e basta. Le sfumature sono importanti, al cinema come nella vita. E quante sfumature mancano in quella cittadina veneta raccontata dal film. Mancano le sfumature degli operai leghisti che il lavoro da operai lo vogliono ancora fare ma è dura lo stesso. Mancano le asprezze della diversità che può essere dolce ma anche molto amara. Manca la cattiveria e la metamorfosi di una società, quella della provincia italiana, cambiata troppo in fretta. Per questo mentre scorrevano le immagini di quella cittadina del nordest ci è venuto alla mente Pietro Germi, regista del secolo scorso, la sua sapidità, il suo saper scontentare tutti, vicini e lontani, per il gusto di raccontare delle cose, dal divorzio all'italiana al ferroviere. Perché «la verità è che bisogna essere delle carogne per avere fortuna». Una cattiveria sana e sincera che in Italia non si trova più, perché da noi tutto sta assumendo la forma dello stereotipo. La politica, che funziona ormai per facce, come la commedia dell'arte, e non per convinzioni (salvo alcune intransigenze leghiste e qualche vecchio liberale, merce sempre più rara, che parla al deserto); la televisione, formattizzata e identica nei programmi (dai quiz ai talk passando per i programmi di cucina) e nelle fasce orarie; la letteratura, priva di scossoni e di dolore. Ed anche il cinema, quello che Benito Mussolini definiva «l'arma più forte» e che oggi pare essere l'arma più debole. Così debole da farci rimpiangere i cattivi - quelli veri! - perché - come recita un proverbio toscano - «di buone volontà è pieno l'inferno». Un posto, quello sì, dell'altro mondo.

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