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Della Valle: "Mecenate per tre ragioni"

Diego Della Valle (Foto Pizzi)

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Quando Diego Della Valle entra nel «suo» monumento - il monumento di tutti - il sole proietta le prime ombre lunghe. È un divo come gli imperatori. E Gianni Alemanno è un Dioscuro che vince con lui. C'è un'atmosfera insieme mondana e colta. Ci sono gli archeologi che hanno contato le pietre di Roma antica - Andrea Carandini, Anna Maria Moretti, Rossella Rea - ma anche imprenditori e vip. Volti abbronzati, signore in decolletée e tacchi alti, hostess impeccabili in corto nero, giapponesi con il farfallino e lo smoking. In prima fila Luigi Abete e Carlo Rossella, Clemente Mimun, Dante Ferretti, Christian De Sica con Silvia Verdone. Ma i flashes sono tutti per lui. Ha il piglio insieme autorevole e bonario. Scambia battute con i sovrintendenti, con Abete. Poggia la mano sulla spalla dell'interlocutore, rassicura. Ma quando finisce la passerella - ci sarà una cena alla «Barchetta» di piazza Cavour dopo il debutto di Diego-Mecenate - e il microfono passa a lui, le parole dicono della fierezza di essere italiani, della voglia di costruire. Un discorso politico. Nessuna recriminazione, nessun attacco. Il sentimento, che deve essere comune, è di credere nel sistema Italia. «Da quella arcata sono entrato da ragazzino», dice il patron di Tod's e indica la porta Libitinaria, in faccia a Colle Oppio. «Venivo qui con un pullman da Casette d'Ete, dove sono nato. Rimasi stupefatto», ricorda evocando il suo paese, adesso sinonimo di un impero manifatturiero. «Quando Alemanno mi ha chiamato - racconta poi - io e mio fratello ci abbiamo riflettuto solo un giorno. Sì, accettiamo - la risposta - ma a un patto. Che lo facciamo da soli. Il sindaco ha ribattuto: "Ma avete capito bene la cifra? Quanto ci vuole per restaurare il Colosseo?". Abbiamo capito benissimo, gli ho risposto. E sono partiti i confronti, incontri. Con il sindaco, con i due ministri che si sono succeduti ai Beni Culturali. A conclusione dico che non è vero che l'Italia non funziona». Poi spiega le tre ragioni che lo hanno convinto ad accettare. Gli servono pure a dire che cosa avrà in cambio. E non sono soldi o cartelloni pubblicitari. «Il primo motivo è che il mio gruppo rappresenta nel mondo il made in Italy. Come non sostenere il monumento più famoso del pianeta? Il secondo motivo è che il nostro Paese vive di cultura e di turismo. Su questa sua peculiarità deve puntare. Con l'aiuto dell'imprenditoria può divenire leader internazionale. Il messaggio da trasmettere all'estero - ripete come uno slogan - è che l'Italia funziona. E vorrei che presto potessimo parlare di altri imprenditori che si prendono in carico Venezia, Firenze. O che una cordata di napoletani risanasse Pompei. Sarebbe una bella notizia». L'ultima ragione è la più strategica. «La situazione mondiale è sempre più pesante, c'è disoccupazione, povertà. Aziende come le nostre hanno il dovere di far vedere che ci sono sul territorio. E la mia è un'operazione sociale, non commerciale. Vi aggiungeremo una Fondazione no profit, Amici del Colosseo. Opererà nei prossimi 15 anni per condurre in questo anfiteatro più studenti, più anziani, più portatori di handicap». L'Italia non è solo livore.

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