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L'amore nell'Ungheria pre-comunista

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diMARIO BERNARDI GUARDI Soffiano sull'Europa devastanti venti di guerra. Ed anche l'Ungheria sta per esser chiamata alla prova delle armi. Domani, l'annuncio. Ma l'alto funzionario governativo che ha controfirmato il documento "cruciale", non può tormentarsi troppo sulle responsabilità personali e collettive che presiedono al conflitto. Ecco, infatti, che entra nel suo ufficio una giovane donna che ha chiesto udienza. Lui la guarda sbigottito e si chiede: chi è che mi sta mettendo alla prova, Dio oppure il diavolo? Perché la ragazza che gli sta davanti - una bellezza di forte stampo "antico", un fascino austero, altero, inquietante - è il doppio perfetto della donna che ha amato anni prima. E che si è uccisa. Per amore di un altro. Da quali abissali oscurità è tornata la sua Ili? Ha qualcosa da chiedergli? O da rimproverargli? Ma la splendida giovane dice di venire dal profondo Nord e di chiamarsi Aino Laine che in finlandese significa Unica Onda. Ha bisogno di un permesso di soggiorno per poter insegnare a Budapest: il consigliere di Stato vuol essere così cortese da concederglielo? Queste le prime pagine de «Il gabbiano» di Sándor Márai (Adelphi, pp.163, euro 16), un romanzo che incanta e incatena, avvolgendo il lettore in una rete di suggestioni e, a un tempo, costringendolo ad una costante tensione intellettuale. Al pari, diremmo, di «Le braci», l'opera che, nel 1998, ci rivelò il grande autore ungherese. Anche qui una scrittura tanto densa da non dare respiro propone un classico tema maraiano: l'incontro-appuntamento col destino concentrato in pugno di ore, che vedranno i protagonisti impegnati in convulsi dialoghi. Una sorta di duello che non prevede né vincitori né vinti. Ma solamente cuori (im)pietosamente messi a nudo. Ognuno, infatti, è chiamato - partendo da sofferti monologhi interiori - a fare i conti con se stesso e il proprio passato, a scoprire ragioni ed emozioni dell'"altro", a mettere a fuoco, nell'intrico di assurdità, stravaganze, coincidenze che "imbrogliano" la vita, una "verità" che consenta di uscire indenni dall'incontro/scontro. Destinato a svolgersi, come abbiamo detto, in un breve arco di tempo. Meglio ancora, ed è quel che avviene nelle «Braci» e nel «Gabbiano», in una fatale e fatata "notte dei doni". E cioè della "rivelazione". Tenendo conto del duplice, misterioso valore di questo termine: togliamo il velo, è vero, ma torniamo a rimetterlo. La mano invisibile, quella che "dirige il volo dei gabbiani e i passi degli uomini", ci si è posata addosso. Continuerà ancora ad accompagnarci anche se lei, la visitatrice, è andata via? Aino Laine, la fanciulla- gabbiano, è l'emblema di un "mistero doloroso" che è peraltro la cifra della poetica di Márai e il contrassegno della sua stessa vita. Si chiamava, in realtà, Grosschimid, il nostro scrittore, e proveniva da una famiglia del patriziato sassone, arrivata in Ungheria nel Seicento. Molte, dunque, le "patrie": l'Ungheria, la Germania, la Vienna dell'adolescenza. Ma con la fine dell'Austria Felix, è una certa idea dell'Europa ad eclissarsi e Márai si sente straniero. Più che mai nel 1948, quando l'Ungheria diventa comunista. Decide allora di andare in esilio. Girovago, vive a Napoli, a New York, in California. È a San Diego che, quasi novantenne, si toglie la vita, nel 1989. E cioè proprio mentre in tutto l'Est europeo soffia il vento della libertà. È troppo tardi, lui è troppo vecchio, quell'appuntamento è troppo assurdo. Insostenibile.

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