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L'Oscar del «re» Firth ha un retroscena tricolore

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diDINA D'ISA Come da cronaca annunciata «Il discorso del re» di Tom Hooper, con Colin Firth, ha fatto incetta di statuette alla 83esima edizione degli Oscar. La pellicola, che si presentava con 12 nomination, si è aggiudicata quattro premi, miglior film, miglior regista Tom Hooper, miglior sceneggiatura originale e miglior attore protagonista Colin Firth, grande interprete di Giorgio VI già vincitore del Golden Globe. Nella cerimonia condotta da Anne Hathaway e James Franco (i più giovani presentatori mai saliti sul palco del Kodak Theatre) la vittoria di «re» Firth è stata affiancata da quella di Natalie Portman (in dolce attesa) come miglior attrice protagonista per «Il cigno nero». Anche lei aveva già vinto il Globe per la sua interpretazione della prima ballerina Nina nel film di Darren Aronofsky sul mondo della danza, sul cui set ha anche incontrato il futuro marito e padre di suo figlio, il coreografo Benjamin Millepied. Una parte peraltro (quella di Millepied) che avrebbe dovuto avere Stefano Bolle che però all'epoca rifiutò il ruolo (e di sicuro oggi se ne pente) Come miglior attore e attrice non protagonista hanno trionfato Christian Bale e Melissa Leo, rispettivamente madre e figlio in «The Fighter», film sulla boxe di David O. Russell dove l'attore è dimagrito moltissimo offrendo una convincente interpretazione dell'ex pugile caduto in disgrazia e fratello del campione Mark Wahlberg. L'originalità non è stata dunque la qualità giusta per ottenere l'Oscar 2011. Testimonianza ne è che ha vinto la tradizione storica del «Discorso del re», mentre David Fincher ha dovuto accontentarsi di premi minori per il suo «The Social Network» (migliore colonna sonora, montaggio e sceneggiatura non originale), film che traccia il ritratto di una generazione consumata dai rapporti sociali virtuali, dominati dalla nascita di Facebook. Sottovalutato, malgrado i quattro Oscar tecnici, anche «Inception» di Christopher Nolan che ha conquistato critica e botteghino. Peccato anche per «Un gelido inverno», intenso e desolante affresco della provincia americana del Missouri. Niente di fatto nemmeno per l'avventura estrema di James Franco in «127 ore»: a Danny Boyle non resta che il ricordo di quando è tornato a casa con il pieno di Oscar di due anni fa, grazie a «The Millionaire», mentre stavolta si è limitato ad applaudire il suo attore sul palco. Anche «Alice in Wonderland» si è aggiudicato due premi (direzione artistica e costumi) e l'Academy ha poi confermato la supremazia della Disney assegnando due ambite statuette a «Toy Story 3» (migliore canzone originale, «We belong together», e miglior film d'animazione). Ad aggiudicarsi infine l'Oscar come migliore documentario è stato stavolta «Inside Job» incentrato sulla crisi del mercato immobiliare americano e sui vizi del sistema finanziario. Per il terzo anno consecutivo sarà la Feltrinelli a distribuire nelle librerie italiane in dvd il documentario vincitore dell'Oscar, dopo aver distribuito negli ultimi due anni «Man on Wire» (2009) di James Marsh e «The Cove» (2010) di Louie Psihoyos. Rimasta a bocca asciutta Antonella Cannarozzi, unica candidata italiana agli Oscar per i costumi di «Io sono l'amore» di Luca Guadagnino, l'Italia ha avuto il suo piccolo momento di gloria sul palcoscenico del Kodak Theatre grazie a Livia Giuggioli, moglie di Firth, grazie al rosso Valentino che ha dominato la lunga serata di Los Angeles e all'omaggio a due geni italiani da poco scomparsi, Mario Monicelli e Dino De laurentiis. Sul palco, Firth ha dedicato la vittoria alla moglie Livia, regista e produttrice. Grazie a lei, l'attore britannico ha un fortissimo legame con l'Italia e parla fluentemente la nostra lingua. Firth e la Giuggioli hanno avuto due figli dai nomi italianissimi, Luca e Matteo. I due trascorrono diversi mesi l'anno in Umbria, regione d'origine di Livia. Con la moglie Firth condivide anche la passione ambientalista che li ha portati a inaugurare a Londra «Eco», una boutique ecologica, dove si divertono a vendere tappeti fatti di materiali di riciclo e abiti vintage. Celine Dion ha cantato sul palco mentre scorrevano le immagini di due leggende del cinema italiano (Monicelli e De Laurentiis), considerati dei miti anche (e soprattutto) oltreoceano. Sembra, purtroppo che il nostro cinema venga però apprezzato dal gotha americano solo nella sua passata versione, seppure straordinaria e memorabile. Registi e attori di oggi sono praticamente ignorati da Hollywood e non riescono a entrare nei gusti del pubblico, né della critica. Ma il red carpet pullulava domenica notte di divi bellissimi, anche grazie alle creazioni dello stilista italiano Valentino che ha vestito la Hathaway con diversi abiti durante la serata. Italianissimo anche l'abito di Scarlett Johansson, arrivata senza accompagnatore vestita da Dolce&Gabbana, mentre Jennifer Hudson ha scelto invece Versace. Italiana è anche la preselezione degli Oscar, cinque dei quali sono stati dati a tre film della scorsa edizione del Festival di Roma: «In a Better World» di Susanne Bier, «Inside Job» di Charles Ferguson e «The Social Network» di David Fincher. «In a Better World» di Susanne Bier ha ricevuto l'Oscar come miglior film straniero. L'Academy ha poi premiato «Inside Job» come miglior documentario: il lungometraggio era stato presentato fuori concorso nella sezione L'Altro Cinema/Extra. Tre Oscar, infine, per uno dei film di maggiore successo della stagione cinematografica, «The Social Network»: la pellicola firmata da David Fincher e presentata a Roma nella sezione Spettacolo/Eventi Speciali, ha ricevuto il riconoscimento per il miglior montaggio, la migliore colonna sonora e la migliore sceneggiatura non originale. «Sono veramente lieto per gli Oscar attribuiti a film presentati al nostro Festival e mi rallegro soprattutto con il direttore artistico Piera Detassis - ha detto Gian Luigi Rondi, presidente della Fondazione Cinema per Roma - La sua lungimiranza e finezza di giudizio sono state confermate dalle scelte operate anche quest'anno con esperta intelligenza».

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