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Patria partorita dal piccolo schermo

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diCARLO ANTINI Si bussava alla porta del vicino non per chiedere un pugno di sale ma per guardare la tv. Così come ci si fermava nel bar sotto casa per fare il tifo per la Nazionale. Negli anni Cinquanta la televisione era appena nata ma ha fatto più lei per l'Italia unita che interi cicli di scuola dell'obbligo. Che dire della lunga stagione degli sceneggiati? Negli anni Sessanta «I fratelli Karamazov», «I promessi sposi» e «L'isola del tesoro» hanno portato agli italiani i capolavori della letteratura mondiale. Una volta a settimana c'era l'appuntamento con il teatro e la lirica. Fino a «Non è mai troppo tardi» che insegnava l'alfabeto a chi magari era sempre vissuto in campagna. Se oggi possiamo parlare di Italia lo dobbiamo anche e soprattutto a radio e tv che hanno accompagnato e favorito le grandi trasformazioni del Paese dal secondo dopoguerra. La Fondazione «Italia Protagonista» ne ha parlato durante l'incontro organizzato a Roma e dedicato a «Radio e televisione: parole e immagini che hanno fatto l'Italia». Al Tempio di Adriano c'erano Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Ettore Bernabei, Gianni Bisiach, Gianni Boncompagni, Fedele Confalonieri, Roberto Gervaso e Giovanni Minoli. Moderatore Pietrangelo Buttafuoco. Quando in pochi potevano permettersi il lusso di andare a teatro, la televisione portava il palcoscenico nel salotto, come ricorda Ettore Bernabei. «A Roma si andava al Sistina, all'Opera o all'Argentina per riprendere un varietà, la lirica o una commedia. All'inizio degli anni Sessanta gli abbonati erano sei milioni e il pubblico complessivo 25-30 milioni. Tutti incollati al video per guardare uno spettacolo che altrimenti non avrebbero mai potuto vedere. Tra i padri della Patria gli sceneggiati televisivi che introdussero nella vita comune tutti gli strati della popolazione». Anche chi parlava solo il dialetto. Gianni Boncompagni racconta i suoi viaggi in Sicilia all'inizio dei Sessanta. «Andavamo lì a raccogliere abbonamenti alla radio. Per attrarre adesioni regalavamo apparecchi nuovi. Nonostante tutto, però, non era facile convincere chi viveva nei paesini più sperduti: la gente ci rispondeva che era inutile abbonarsi perché tanto non capiva quello che la radio diceva». Fino alla fine degli anni Settanta. Fino all'avvento della «rivoluzione protestante delle comunicazioni di massa», come la definisce Buttafuoco. La nascita della televisione commerciale di Berlusconi ha aperto nuovi scenari, favorito nuove alleanze e portato una ventata di modernità in un settore ormai asfittico. «Erano anni bui - racconta Fedele Confalonieri - anni di piombo in cui il compromesso storico era una sorta di cappa culturale. Berlusconi portò una ventata di libertà, modernità, Occidente. Offrire nuovi spazi pubblicitari vuol dire favorire tante imprese altrimenti represse. Le news hanno fatto il resto, favorendo la libertà di mercato. Quando c'è stato un momento di difficoltà, gli italiani non si sono dimenticati di tutto questo». E ne ha anche per Benigni: «Devo dire che a Sanremo mi ha annoiato e poi dire che l'unità d'Italia è un fatto di popolo è un falso storico». E ora? Che succederà con il digitale terrestre? Giovanni Minoli non ha dubbi. Il servizio pubblico deve nascere a nuova vita. «Abbiamo l'opportunità di creare contenuti forti e significativi. Con la moltiplicazione dei canali viene meno l'alibi della corsa all'audience. La Rai deve riorientare la sua mission». Per il momento, il servizio pubblico si dedica a Gramsci, come è accaduto a Sanremo nella serata dedicata all'Unità d'Italia. «Se la lettura di Gramsci - ha detto La Russa - è il prezzo che bisogna pagare per avere una serata sui 150 anni dell'Unità d'Italia, ben venga Gramsci». Potere del piccolo schermo.

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