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La civilissima Arezzo s'accapiglia attorno alla vendita di un suo pezzo forte, l'Archivio di Giorgio Vasari.

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Iproprietari, la famiglia Festari, da mesi trattano con un magnate russo. Ma il concittadino di Putin si è alla fine ritirato e loro, che delle carte vogliono 150 milioni di euro contro i 2,5 che gli offre lo Stato italiano, ora parlano di acquirenti americani. Bluff o no, la città toscana intanto si mette in ghingheri per celebrare il cinquecentenario della nascita del suo genio, che nacque nel luglio del 1511. Ma di questo uomo eclettico, alla Leonardo da Vinci, si conosce un ritratto a metà. È notissimo come autore della prima storia dell'arte, quelle «Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti - da Cimabue e insino ai tempi nostri» che sono la Bibbia di ogni studioso. Ma si dimentica facilmente che Giorgio Vasari fu egli stesso pittore e architetto, e di vaglia, nella scia del cenacolo creativo che s'affollava attorno a Michelangelo. Un altro aspetto è in ombra, nella vita di colui che passò dieci anni a compilare certosino la vita dei suoi colleghi. Che il «monumento», i duecento profili ragionati, fu pensato e avviato non già nella vitale e scapigliata Toscana di Cosimo de' Medici, ma nella pomposa e ricca Roma. Ecco come. Giorgio Vasari arrivò per la prima volta nella città dei Papi nel 1531, dopo due tragici anni, segnati dalla peste ad Arezzo, dalla morte del padre, dagli echi di un papato sconvolto dal Sacco dei Lanzichenecchi, il ciclone che aveva fatto tornare in Toscana il pittore Rosso Fiorentino. Poi torna ad Arezzo, lavora a Venezia, a Ravenna, a Napoli. Dal 1546 Roma è con Firenze la città delle idee e degli impegni. Nella «koiné« romana (come la chiama Maurizio Marini, il critico che introduce le «Vite» di Newton Compton, un bel Mammut appena ripubblicato) Vasari matura l'idea di scrivere le biografie degli artisti. Il cenacolo di intellettuali era guidato dal cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III, in quegli anni sul soglio pontificio. Lo animavano ricchi fiorentini, come il banchiere Bindo Altoviti, e umanisti come Paolo Giovo. Si riunivano col porporato a Palazzo Farnese, la residenza imponente che dava lustro alla famiglia. Convivi e coltissime dispute, alle quali partecipava anche Annibal Caro, il traduttore dell'Eneide. Durante un banchetto Giovio, letterato e biografo, azzardò di voler inserire nei propri «Elogi» degli uomini celebri anche gli artisti. Ma si profuse in tali e tanti sfondoni che Vasari non riuscì a stare zitto. «Scambiava i nomi, i cognomi, le patrie, l'opere o non dicea le cose giuste come stavano appunto, ma così alla grossa», scrive. Giorgio si scalda a correggere, invita l'amico a mettere «le cose a' luoghi loro, et a dirle come stanno veramente». La comitiva gli chiede allora di preparare per messer Paolo «una ordinata notizia» degli artisti passati e presenti. Vasari si mette al lavoro su appunti che certamente già possiede. Nel 1550 scrive la parola fine sulla prima stesura delle «Vite». Dedica a Cosimo I de Medici, lodi di Giovio e consigli sinceri di Annibal Caro, che lo invita a essere meno ampolloso: «In una opera simile, vorrei la scrittura a punto come il parlare, cioè c'havesse...del corrente più che dell'affettato». Vasari ubbidisce. Ma soprattutto va al di là della cronaca, elabora un'estetica, spiega che la storia deve «essere veramente lo specchio della vita umana, non per narrare asciuttamente i casi occorsi a un principe o a un repubblica, ma per avvertire i consigli, i partiti e i maneggi degli uomini, cagione poi delle felici od infelici azioni». L'umanista punta diretto allo scopo, che è poi quello dell'arte migliore. «Non si può ignorare - dice Maurizio Marini - il ruolo svolto dalle personali teorie estetiche filtrate dalle biografie, fontamentali per gli esiti della cultura del XVI secolo. Vasari anela alla "buona maniera" e traccia così la strada del Manierismo». Buona maniera è quella che mette in atto col suo pennello. A Roma dipinge un grande affresco nel Palazzo della Cancelleria pontificia. Il «Salone dei Cento Giorni» (tanto il tempo concesso al pittore dal committente, Alessandro Farnese) illustra le imprese di Paolo III. «Per la genesi delle Vite e per questo ciclo importante - suggerisce Marini - la Capitale e il Vaticano dovrebbero rendere concreto omaggio al cinquecentenario del Vasari».

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