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di DINA D'ISA Un sessantenne tenta di avere un'amante e sogna rapporti ravvicinati con tutte le ragazze possibili del suo piccolo mondo trasteverino.

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Eppure,persino il romantico film «Gianni e le donne», opera seconda di Gianni Di Gregorio, selezionata dal direttore Dieter Kosslick alla Berlinale, diventa strumento (assurdamente patetico) per creare polemiche e critiche su Berlusconi. Al timido regista c'è infatti qualcuno che domanda se questo suo film non sia una sorta di attacco provocatorio alle vicende legate al Cav. Quasi a dare l'esempio di come un uomo agè dovrebbe vivere la propria sessualità. «Temevo che l'attualità coincidesse col mio film - risponde Di Gregorio regista, autore e interprete - Ma io non ho mai pensato di fare un film contro di lui. Sono oltre due anni fa che mi è venuta in mente quest'idea, pensando all'uomo comune al pensionato, che è il mio mondo, quello che voglio indagare. Ovvero, che un uomo di una certa età, di fronte ad una bella ragazza, sebbene la corteggi, l'aiuti a portare la frutta, le offra un caffè, alla fine non può fare altro e tutto resta nell'ambito di un rapporto platonico. Dovrebbe essere naturale. Non ci pensavo quando ho cominciato il progetto due, tre anni fa. Anzi, mi sarei spaventato, avrei avuto l'ansia della contemporaneità. Il mio è solo un altro modo di vedere il mondo delle donne. Certe volte i film rispecchiano la realtà e la realtà supera la fantasia, più di quanto uno pensi e voglia. Temo molto che a Berlino ci saranno domande sul momento politico che stiamo vivendo. Ma, ripeto, non è proprio voluta la citazione anti-Berlusconi». Una Roma fuori dai cliché della cartolina, poco fotografata, col cuore tutto a Trastevere, svela però nel film anche dimore lussureggianti e evocazioni nobiliari all'ombra delle Terme di Caracalla. «Si vede l'Ara Pacis, Piazza Navona, scorci di via del Corso, ma a me piaceva raccontare un'altra Roma - dice Di Gregorio - Esistono zone, come Testaccio e Trastevere che hanno in parte perso l'identità storica, ma conservano quel carattere paesano, per il quale anche i turisti dopo un mese diventano di casa e si chiamano tutti per nome. La villa materna è esagerata ma ci tenevo a raccontare la mia mamma sperperatrice perché lo è stata veramente e io ho passato 15 anni della mia vita a pagare i suoi debiti». Di Gregorio il soprannome di Jacques Tati di Trastevere: «Si è vero, nel mio personaggio c'è una comicità passiva che è anche un po' la mia, è un mio modo di essere. Ma c'è pure molta malinconia. Ho fatto il film per ridere sul tempo che passa, sul fatto che ora le donne ti guardano come una poltrona o una lampada. L'ho capito sull'autobus: prima ricambavi qualche sguardo intrigante con una bella signora e potevo costruirmi una storia immaginaria, anche se non succedeva nulla. Adesso, ti puoi dare persino fuoco, non desto più attenzioni. Ho voluto raccontare questo e per quanto si rida, la malinconia è il veicolo portante». Sull'idea di una trilogia dopo il pluripremiato «Pranzo di Ferragosto» ancora non ci sono certezze: «Mi piacerebbe uscire da me stesso, ma forse c'e è ancora da scavare. Soprattutto sulla presenza della mamma, che c'è anche se l'ho persa 15 anni fa». Accanto a lui nel film emergono le «sue donne»: Valeria de Franciscis Bendoni (la sua «mamma» ultranovantenne), Elisabetta Piccolomini (la moglie), Kristina Cepraga, le gemelle Laura e Silvia Squizzato (dalla tv al loro primo film), che nella loro perfetta somiglianza alimentano le fantasie di Gianni: forse, «per il senso di estraneità e di sorpresa che danno le gemelle».

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