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di SERGIO ROMANO Negli anni passati dalla prima edizione di questi due saggi, non ho avuto occasione, purtroppo, di cambiare opinione.

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LoStato nazionale non esiste in natura. È una creazione ottocentesca, nata dal connubio tra Illuminismo e Romanticismo, tra la repubblica «una e indivisibile» dei giacobini francesi e il culto romantico delle «radici». Ogni Stato «nazionale» europeo è costituito da una larga varietà di gruppi etnici e religiosi. Il maggior problema di uno Stato nazionale «risorto», quindi, non è quello di restaurare una unità preesistente, ma di crearla con l'aiuto di scrittori e poeti che si servono generalmente del modello letterario creato dai romanzi storici di Walter Scott. Alcune delle riflessioni sull'Italia contenute in questo libro valgono quindi anche per altri paesi. Ma il caso dell'Italia, presenta sin dall'inizio maggiori difficoltà. Il paese è diviso da una catena di montagne che scende lungo la penisola, a sud della Valle padana, e separa la sua costa occidentale dalla sua costa orientale, con difficoltà di comunicazione che non sono mai state completamente superate. Non è interamente mediterraneo perché l'Adriatico è divenuto, dopo il declino della Repubblica di Venezia, un mare interno dell'Europa danubiano-balcanica. Non è unito linguisticamente perché l'italiano è parlato al momento dell'unità dall'8% della popolazione e perché i due più vecchi Stati della penisola, la Repubblica di Venezia e lo Stato pontificio, hanno gestito i loro affari in una lingua diversa dall'italiano: una versione elegante e signorile del veneto nel primo, il latino nel secondo. Nonostante la Chiesa abbia combattuto con successo il contagio della Riforma, il paese non è neppure unito religiosamente. Al Nord il suo cattolicesimo ha preso sul serio la Controriforma e ha adottato uno stile ecclesiastico più rigoroso e sorvegliato. Al Sud prevale ancora un cattolicesimo paganeggiante e teatrale dove la fede va in scena nelle piazze, nelle strade e nelle chiese come uno spettacolo corale. Mentre la Germania è stata unificata da Bismarck con il concorso, talora estorto ma pur sempre utile, degli Stati tedeschi, l'Italia è stata unificata da Cavour contro la volontà degli Stati preunitari e in particolare dello Stato pontificio, vale a dire della istituzione che era in grado di esercitare una forte influenza sulle coscienze degli italiani. Non è tutto. Mentre le grandi entità territoriali europee – Francia, Spagna, Isole britanniche – sono state unificate da un sentimento di fedeltà e lealtà verso la dinastia regnante, l'Italia non ha un buon ricordo della sua breve dinastia unitaria e ha tante lealtà quanti sono i piccoli Stati monarchici o repubblicani di cui è stata costellata la penisola. Questo non significa che l'Italia sia totalmente priva di caratteristiche unitarie. Ha anzitutto una straordinaria visibilità e riconoscibilità geografica: lo stivale rende le sue regioni altrettante parti di uno stesso «oggetto». Vi è poi forse, sepolto nella sua memoria, il ricordo di una provincia italica, cuore dell'Impero romano, che molti hanno sperato di risvegliare. I suoi abitanti parlano una miriade di varianti dialettali, ma la sua cultura ha usato prevalentemente l'italiano per opere che hanno avuto una considerevole influenza al di là delle sue frontiere naturali. Anche quando lo Stato italiano non esisteva vi era quindi in Europa e nel mondo una cultura italiana. Peccato che la lingua di questa cultura sia diventata dal Seicento il linguaggio retorico e ampolloso di forbiti cortigiani e vacui manieristi, ancora più incomprensibile per il popolo di allora di quanto sia il latino per il popolo d'oggi. Mentre in Francia, in Inghilterra e in Germania nascevano lingue moderne, adatte a esprimere i sentimenti e le aspirazioni della società, l'italiano era un fiore di serra, poco concimato dal basso e quindi destinato ad avere un tasso di artificialità che tocca il suo zenit nei libretti d'opera. Una lingua così involuta, manierata e retorica ha ritardato considerevolmente la nascita di una letteratura nazionalpopolare: con il paradossale risultato che il maggiore romanzo italiano dell'Ottocento – I Promessi sposi – è oggi meno contemporaneo di quanto siano Le rouge et le noir, César Birotteau, Madame Bovary, Pride and Prejudice, Great Expectations, Effi Briest, per non parlare della grande letteratura russa. Forse i primi libri veramente italiani, nel senso unitario e risorgimentale della parola, sono il Pinocchio di Collodi e le opere di Edmondo De Amicis. Il lettore potrebbe chiedersi a questo punto se io sia favorevole allo scioglimento dell'unità nazionale. Sono troppo conservatore per desiderare un evento che avrebbe effetti incalcolabili e imprevedibili. Il progetto unitario è complessivamente fallito, ma bene o male gli italiani, in centocinquant'anni di storia unitaria, hanno creato un patrimonio comune fatto di istituzioni, aziende, opere pubbliche, miracoli economici, catastrofi e ricostruzioni, gare sportive, opere dell'ingegno, battaglie combattute insieme e non sempre perdute. Questo eterogeneo patrimonio, disordinatamente stipato negli archivi della memoria nazionale, rappresenta, come direbbero i personaggi dei romanzi di Verga, la «roba» italiana. Se lo Stato in cui tutto questo è stato prodotto morisse, la roba andrebbe in gran parte dispersa. Ne vale la pena?

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