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Panfilo Gentile

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diGENNARO MALGIERI Negli ultimi sessantan'anni la partitocrazia ha assunto forme diverse, ma uguali sono state le modalità in cui si è espressa: l'occupazione del potere e della vita pubblica da parte delle forze politiche che, in tal modo, hanno travalicato i loro compiti istituzionali. Fenomeno antico denunciato nella seconda metà dell'Ottocento da Francesco De Sanctis, Ruggero Borghi, Marco Minghetti. Ma è stato nella seconda metà del secolo scorso che la partitocrazia si è sviluppata in forme abnormi tanto che un costituzionalista liberal-conservatore come Giuseppe Maranini ne denunciò la portata devastante nel sistema istituzionale e nella vita civile fin dal 1949 in un libro significativamente intitolato Il tiranno senza volto. Anche don Luigi Sturzo ne fece largo uso in polemica perfino con il suo partito, mentre vi dedicarono attenzione «scientifica» giuristi e studiosi di scienza politica come Carlo Costamagna, Giacomo Perticone, Lorenzo Caboara. Tuttavia, il polemista più acuto ed incisivo che ne ha denunciato la nefasta portata resta Panfilo Gentile, un grande conservatore (1889 - 1971) la cui attualità, a quarant'anni dalla scomparsa, risulta di una sorprendente attualità. Il giovane studioso Alberto Giordano, l'ha colta nel saggio - il solo organico finora dedicato al pensatore e giornalista abruzzese - «Contro il regime. Panfilo Gentile e l'opposizione liberale alla partitocrazia», edito da Rubbettino (pp. 284) nel quale non soltanto ripercorre le idee del singolare poligrafo, ma lo situa nell'ambito del vasto (e per tanti versi sconosciuto) dibattito del liberalismo del dopoguerra contro le degenerazioni del partitismo. Discepolo di Mosca e Pareto, appartenente a quella destra liberal-nazionale con connotazioni antifasciste cui pure erano legati conservatori del livello di Piero Operti e Mario Vinciguerra i quali, per un curioso scherzo del destino, vennero avversati soprattutto dall'antifascismo militante, Gentile attraversò tutte le stagioni politiche del Novecento. Fu All'Avanti! con Mussolini, a l'Unità con Salvemini, al Risorgimento liberale fra il 1945 ed il 1947, collaboratore de La Stampa, del Mondo, del Corriere della sera come editorialista e direttore de La Nazione. Ma fu su sullo Specchio, sul Borghese, su Libera Iniziativa e soprattutto sul Roma di Alberto Giovannini che Gentile formulò le sue critiche più spietate al totalitarismo partitocratico. Scrisse Storia della dottrina del contratto sociale, La concezione etico-giuridica del socialismo, l'Opera di Gaetano Filangieri, L'Essenziale della filosofia del diritto, Il Genio della Grecia, Storia del cristianesimo, Cinquant'anni di socialismo in Italia, e poi i tre volumi nei quali passò ad un vaglio rigorosissimo le distorsioni del sistema politico italiano: Polemica contro il mio tempo (1965), Opinioni sgradevoli (1968), Democrazie mafiose (1969), editi da Giovanni Volpe. L'«oligarchia delle mezze calzette», come scriveva Gentile, trova in questi tre saggi, più volte ristampati, la più limpida rappresentazione del suo pensiero politico, ma anche del suo disgusto nel vivere in un'Italia che sprofondava nel radicalismo politico e nel nichilismo morale. Ancora oggi, a riprova dell'acutezza e della preveggenza dell'analisi, non vi è possibilità di contestazione dell'assunto secondo il quale le nomenklature partitiche hanno proceduto «all'usurpazione degli oligarchi o meglio alla loro istintiva tendenza a frodare la democrazia e a creare dietro la facciata democratica un regime paratotalitario». Contesto, come mette il luce Giordano, nel quale cominciavano a prosperare le «democrazie mafiose» caratterizzate dalle oligarchie clientelari fondate sul «regime della tessera». Gentile nel definire le democrazie del suo tempo ne denunciava il tradimento dell'ideale democratico e l'instaurazione sostanziale di regimi caratterizzati da un lato dalla selezione d'una classe dirigente inadeguata, formata da personale politico non all'altezza, e dall'altro alla perdita del senso dello Stato. Perciò reputava più civile l'intervento diretto del popolo nella scelta della classe dirigente, anzi del «decisore» e quindi per l'introduzione nell'ordinamento della Repubblica presidenziale da opporre alla «partitopatia» e alle oligarchie partitocratiche. Per questo si considerava, come disse in un'intervista a Gianfranco De Turris nel 1969, pubblicata sul Conciliatore, «uno dei pochi reazionari che vi siano oggi», perché riteneva che «il governo dei popoli debba appartenere unicamente a chi dimostri di saper governare». Chi potrebbe contraddirlo?

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