Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Piccolo, segreto e prezioso. È l'oratorio

default_image

  • a
  • a
  • a

diLIDIA LOMBARDI Guardate la foto qui accanto. Racconta un pezzo di storia di Roma: non solo degli artisti che la plasmarono, ma del Vaticano, delle famiglie nobiliari e di quelle religiose. È la Cappella dei Magi, si trova all'interno del Palazzo di Propaganda Fide, l'edificio che si apre su Piazza di Spagna. Sembra una grande chiesa, invece è un piccolo spazio dilatato dalla sapienza dell'architetto che lo disegnò, Francesco Borromini. Nacque per essere un oratorio, uno dei tanti luoghi privati, dedicati alla preghiera, che le congregazioni religiose o le famiglie blasonate capitoline pretendevano all'interno del loro palazzi. E il viaggio che proponiamo questa settimana è proprio alla ricerca di questi scrigni preziosi, tanto piccoli quanto ricolmi di dipinti, sculture, arredi ricercati, marmi, ori, alabastro. Perché la devozione, nella Roma di Papa Re, nella pomposa città barocca, non poteva non nutrirsi di fasto. Dunque, la Cappella dei Magi. La città l'ha riconquistata alla visita da poche settimane. Il cinquecentesco Palazzo Ferratini finora riservato ai frequentatori dell'edificio che Santa Romana Chiesa acquistò e ampliò nel Seicento per le proprie missioni nel mondo è ora inserito nel percorso del Museo di Propaganda Fide, con opere raccolte dai missionari e capolavori della pittura italiana. Ed è proprio da una sala della quadreria (espone tra l'altro un curiosissimo Canova ritrattista per gioco) che una finestra si apre su un «panorama» possibile solo nella caput mundi: l'interno della Cappella dei Magi, strepitosa per la volta che incide sulla forma rettangolare dell'oratorio un gioco di angoli e di curve. È l'invenzione che l'eccentrico e severo Borromini stava studiando negli ultimi anni della sua vita, così come aveva fatto con un altro Oratorio, monumentale però, quello dei Filippini. Accanto alla Chiesa Nuova, nel regno dei confratelli di «Pippo Bono», ovvero San Filippo Neri. Il nome alla cappella viene dal dipinto sull'altare maggiore: un'Adorazione del Bambino da parte dei re venuti dall'Est e dall'Africa, simbolo appunto della diffusione del cristianesimo presso culture diverse. Il quadro è firmato da Ludovico Gimignani e fu terminato nel 1634. Sopra l'altare, un altro dipinto ad hoc, «L'Euntes docete» di Lazzaro Baldi, con Cristo che invia gli apostoli sulle vie della Terra. L'altare è il climax di un ambiente sobrio, con pareti di intonaco grigio e le testine di angelo incastonate nei capitelli, come spesso in Borromini. Che si prese qui una rivincita contro il rivale Bernini. Perché pochi anni prima l'estroverso Gianlorenzo, incaricato da Urbano VIII di ampliare Palazzo Ferratini, aveva realizzato anche la cappella, a pianta ovale. Ma nel 1647 un altro papa, Innocenzo X, incaricò il Borromini di rifare tutto. Sfarzoso e sovraccarico un altro oratorio, quello del Gonfalone, attiguo a via Giulia. Era il luogo delle giaculatore della confraternita omonima, nata nel Medioevo su ispirazione di San Bonaventura col compito di assistere i carcerati e di riscattare i cristiani fatti schiavi dall'Islam ma anche di guidare le processioni e le sacre rappresentazioni, specie quella del Venerdì Santo. L'oratorio è lo specchio dello stile della Controriforma e opera di Domenico Castelli, ticinese come il Borromini. Dentro, sotto il soffitto di legno intagliato, gli affreschi con Profeti e Sibille rimandano al Michelangelo della Sistina. Ma c'è anche la mano di Federico Zuccari, folgorante in una «Flagellazione di Cristo». Da mezzo secolo la cappella, perfetta per acustica, è scenario, ogni giovedì fino a maggio, della stagione di concerti guidata da Angelo Persichilli. Musica pure all'oratorio del Caravita (accanto a piazza Sant'Ignazio), dedicato a Francesco Saverio, apostolo delle Indie. Lo volle nel Seicento un gesuita, Pietro Garavita. Nell'austera navata unica restano frammenti di affreschi di Sebastiano Conca e di Baldassare Peruzzi. Ora ci si fanno concerti, nei secoli passati preghiere. Come racconta ridendo il Belli. Che dipinge «li fratelli Mantelloni», missionari dal lungo mantello nero, a fustigarsi con tanta foga da colpire il religioso seduto accanto. Così le adunate di penitenza finivano in rissa.

Dai blog