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Camus e quel Caligola tanto amato in Italia

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Albert Camus

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Pensando alla tragica morte di Albert Camus, il 4 gennaio di 50 anni fa, in un incidente d'auto a Montereau, a un centinaio di chilometri da Parigi, si percepiscono come profetiche le parole di Hölderlin premesse a «L'Homme révolté» del 1951: "E apertamente dedicai il cuore alla terra grave e sofferente, e spesso, nella notte sacra, promisi d'amarla fedelmente fino alla morte, senza paura, col suo greve carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi. Così, m'avvinsi ad essa di un vincolo mortale".   Ricordandolo il giorno dopo, proprio dalle colonne de "Il Tempo", così si esprime Giuseppe Ungaretti: "Sapeva di non disporre che di poche parole di scrittore, ma esse erano parole che raggiungevano l'altezza della poesia perché lo stesso suo vivere non poteva svolgersi se non profondamente impegnato nella drammatica realtà di oggi". Proprio ne «L'uomo in rivolta», attraverso Rimbaud, Camus descrive ombra e luce della poesia: "Nel momento in cui, portando in sé l'illuminazione e l'inferno, insultando e salutando la bellezza, ha fatto di una contraddizione irriducibile un duplice e alterno canto, è poeta della rivolta, e il massimo". La rivolta nasce dallo spettacolo dell'irragionevolezza, davanti ad una condizione incomprensibile. "Grido che a nulla credo e che tutto è assurdo, ma non posso dubitare del mio grido e devo almeno credere alla mia protesta". Da queste tensioni prendono avvio pagine stupende, in particolare «Lo straniero», 1942, e ne La Peste, 1947. Il bruciarsi di un moralista senza Dio negli interrogativi radicali (come per Carlo Bo) affascinava Ungaretti e Quasimodo, Moravia, scrittori appartati come Morselli. Piovene, dopo la consacrazione del Nobel del 1957, parla delle sua religiosità laica vicina al Leopardi della Ginestra. Non entusiasta Montale, che ne disdegnava la contaminazione con la ruvida realtà, per cui l'unica opera degna di essere ricordata è «La Peste». Riveste un ruolo particolare nella storia del teatro italiano il personaggio di Caligola dell'opera omonima, che aveva accompagnato Camus in diverse redazioni, dalla fine degli anni '30 a metà degli anni '50, interpretato per la prima volta da un intenso Gèrard Philipe. Messo in scena già nel 1946 da Strleher (in un allestimento che non piacque all'autore, con Renzo Ricci troppo romantico), segna il clamoroso esordio di Carmelo Bene, e altri giovani ribelli alle regole dell'Accademia, a cui Camus aveva autorizzato il testo poco prima negato a Laurence Olivier. Seguiranno i Caligola di Sbragia e Giovampietro, nel '70, di Micol e Scaparro del 1983, l'edizione con l'imperatore al femminile di Cristina Liberati (con grandi polemiche per la rinuncia in extremis di Carla Gravina), quella di Branciaroli.   L'imperatore romano, avendo capito che tutti gli uomini sono destinati a morire e non sono felici "trae tutte le conseguenze da questa consapevolezza" (Giovanni Antonucci), difendendo furiosamente la propria solitudine, con gesti crudeli, ma anche delicati e poetici. Fino all'inverosimile, divenendo espressione di un dolore profondo, scatenato dalla morte del più dolce e del più osceno, l'unico, degli amori, quello per la sorella Drusilla. Alla messa in scena del 1997, per la regia di Elio Capitani, ne scrisse, sul "Corriere della sera", Giovanni Raboni, sottolineando la tremenda contraddittorietà del Caligola di Camus, "precursore dei campi di concentramento o eroe della più alta e impossibile delle utopie, liberare gli uomini dalla paura della morte".  

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