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di RUGGERO GUARINI Innumerevoli, anzi infinite, sono le forme della vanità.

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Daun lato infatti è evidente che esempi di estrema ancorché infima vanità possono essere anche figure miserelle come quella guardiana di cessi che Proust, in una pagina della Recherche, colse nell'atto di deplorare che ormai le toccasse gestire un luogo frequentato da clienti assai meno distinti di quelli di una volta; dall'altro si può sospettare che in cima alla scala si trovino tipi come quei mistici e quegli asceti che in effetti potrebbero anche sembrare dei vanesi superlativi, bramosi di essere accolti in quello che per loro è il più elitario dei luoghi: l'azzurro salotto dell'Eterno ... Del resto l'idea che persino i santi appartengano al vasto popolo dei vanesi non è nemmeno il più audace dei tanti sospetti che possono nascere nel corso di una libera riflessione sull'inesauribile argomento. Infatti ci si può spingere oltre non soltanto sventolando il celebre incipit dell'Ecclesiaste («Vanità delle vanità, tutto è vanità») e nemmeno limitandosi a dichiarare come, fa Mario Andrea Rigoni proprio all'inizio dell'ultimo suo temerario librino «Vanità» (Aragno, 106 pagine, 10 euro), che “la storia della vanità è la storia del mondo”, ma giungendo a chiedersi persino, come lo stesso Rigoni propone subito dopo, se “la creazione stessa non fu, in tutta l'estensione e in tutti i sensi del termine, un atto di suprema, insondabile vanità”. Di Rigoni sono amico ormai da molti anni. Mi conquistò coi i suoi originali contributi alla conoscenza del pensiero di Leopardi, e in particolare col rilievo che egli diede a quei passi dello Zibaldone che di quel pensiero lasciano intravedere un aspetto non meno importante che tuttora pressoché misconosciuto, ossia quello strepitoso fiuto storico-politico che permise a quel disperatissimo genio di cogliere l'essenza derisoria delle “magnifiche sorti e progressive”. Mi è poi diventato anche più caro per certi originali racconti raccolti l'anno scorso in altro volumetto «Dall'altra parte» edito sempre da Aragno. Ma se in tutti i suoi scritti precedenti avevo ammirato l'intelligenza e lo stile (Rigoni è un prosatore di rara eleganza e chiarezza), con queste sue lucide variazioni su un tema propizio alla lagna mi ha veramente commosso. Insomma con questo librino Rigoni non solo conferma di essere, in una società letteraria piena zeppa di vanagloriosi e sculettanti tromboncini uno dei pochi, pochissimi nostri scrittori di rango, ma aggiunge alla sua nobile fisionomia di saggista un singolarissimo tocco, non privo di sprezzatura, di sobrio e spesso arguto ardimento speculativo. E per motivare questo mio giudizio riporto alcuni dei più abbaglianti aforismi del libro: «L'invidia, il primo vizio apparso sulla terra dopo la cacciata dall'Eden, il primo peccato del primo discendente del primo uomo, se non è figlia certo è sorella della vanità. L'una e l'altra erano già unite nella colpa di Adamo, di cui quella di Caino non è che la replica in terra» – «Nei rituali di seduzione e di accoppiamento degli animali, nel corso dei quali ogni individuo esibisce le proprie caratteristiche e le proprie virtù, si vede bene quale sia il fondamento biologico della vanità: essa serve tanto ad affermare che a perpetuare se stessi» – «Sarà un caso se, in molte lingue europee, il pronome di prima persona è rappresentato graficamente da un'asta verticale? Non si dovrà leggere in questo elementare iconismo una volontà del soggetto di ergersi, di segnalarsi, di inalberare e sventolare un patetico vessillo per non essere travolto dalla marea dell'anonimo?». Confesserò infine che il secco pessimismo a ciglio asciutto di Rigoni non produce affatto, su di me, un effetto depressivo e demoralizzante, ma, al contrario, una lieta e strana euforia, più eccitante di qualsiasi forma di speranzoso buonismo.

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