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A conferma di una politica editoriale che sa giocare anche sulle riscoperte, la Adelphi di Roberto Calasso ha deciso di rilanciare Curzio Malaparte.

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"Lapelle", con la sua geografia di guerra così reale e così onirica, è un pugno nello stomaco e dunque ti far star male, al punto che certe volte non ce la fai ad andare avanti con la lettura. Del resto, è quel che lo scrittore vuole: con gli effetti speciali ci gioca, e così esaspera, deforma, sconcerta. Sapendo che, affascinato, riprenderai a leggere. Vien fatto di pensare alla sfida di un esteta incline alla morbosità e al sadismo: bene, Malaparte è "anche" "questo", e cioè un Narciso che ti vuol conquistare con lo scialo dell'orrore, descritto sino alla nausea: ma non è "solo" questo. Emblema e metafora fin che si vuole, l'Italia della "Pelle"- con la sua Napoli partorita da un incubo - è amaramente vera. Carne ed anima vendute al migliore offerente, annientamento di ogni moralità, valori allo sbando, sfrenato opportunismo, voglia di sopravvivere comunque, fecondano indubbiamente preziosità calligrafiche portate al parossismo, ma hanno alla base lo sguardo implacabile di chi ha visto e può, deve testimoniare, raccontando la decadenza e insieme la spavalderia ironica e beffarda (si vedano le pagine dedicate alla fucilazione dei franchi tiratori fascisti, ragazzi e ragazze, di fronte alla chiesa di Santa Maria Novella, a Firenze). A questo punto, l'interrogativo si impone: siamo di fronte a una "Malaparte Renaissance", con tanto di prestigioso sigillo editoriale? Bè, la faccenda non è tanto semplice. Visto che nei confronti dell'Arcitaliano-Arcitoscano (ma il padre, sassone, lo battezzò con un fiero e sonante Kurt Erich Suckert), è in atto da anni una sorta di chiusura/ censura, fatta di pregiudizio, ostilità, moralismo, per così dire, "bipartisan". Il fatto è che la vita e le opere di Curzio "urtano". Ed urtano perché sono il manifesto antiminimalista di un "imperdonabile". Uno che davvero non visse al 50 per cento come Montale diceva di aver fatto, ma che debordò, uscì dagli argini, si identificò nella dismisura. Militando e amando, guerreggiando e scrivendo di tutto e di più, passando da un estremo all'altro, nero, rosso, bianco, e magari con tutti questi colori mescolati insieme. E mai dimenticandosi di annientare col paradosso i conformisti di tutte le parrocchie. Però Liliana Cavani, una di sinistra, trasse da La Pelle un film forte e dal cast stellare, Marcello Mastroianni in primis. E ci vede giusto Milan Kundera quando si profonde in esercizi di ammirazione, dicendo: era un poeta. Un poeta che mescolava umori vitalisti e mortuari, e li affidava a una prosa dove c'è posto per il realismo del "reportage" e per la ri-creazione onirica, per la dilatazione espressionistica e per la magìa iperrealistica. Per il suo proliferante Novecento. Perché Malaparte - più che mai il Malaparte della "Pelle"- è il Novecento. Con al centro l'Italia dove tutti gli entusiasmi sono crollati e che è così devastata e annichilita da non provar più nemmeno vergogna di sé. Ma lui la sente su di sé, la vergogna. Insieme alla pena immensa della sconfitta: di tutti. Difficile rimarginare la ferita. A meno che non ci pensi la poesia. Sempre redentrice, anche quando versa sale sulle piaghe.

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