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Più ribelli che briganti i delusi da Garibaldi

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Ibriganti, su molti libri di storia, li disegnano così da un secolo e mezzo. Brutti forse lo erano, ma la vita che conducevano difficilmente andava d'accordo con la raffinatezza; sporchi lo erano tanto quanto potevano esserlo, dalle Alpi all'Etna, coloro che ogni giorno dovevano scommettere con la vita sui campi e nei boschi; cattivi potevano esserlo tanto quanto i damerini gallonati e impomatati dell'esercito piemontese, che li consideravano alla stregua di selvaggi da civilizzare. Col ferro e col fuoco. È l'«antistoria del Risorgimento e del brigantaggio» il saggio di Giordano Bruno Guerri «Il sangue del Sud» (Mondadori, pp. 298, e.20). Il titolo occhieggia una frase entrata nell'immaginario collettivo, e non a caso, visto che quello provvisorio era qualcosa del tipo «La prima guerra civile degli italiani». E infatti Guerri non si nasconde dietro al comodo velo della vulgata risorgimentale, a pochi mesi dalla grande abbuffata celebrativa dell'unità italiana, la cui storia è inquinata da una visione semplificata e persino manichea che doveva prospettare un'epoca con le tinte "nobili" dell'«espressione geografica» di Metternich che diventava stato sotto le baionette di Vittorio Emanuele II «re d'Italia per volontà della nazione». Per mezza Italia l'impresa garibaldina e la calata dei piemontesi fu invece uno choc sociale e strutturale,

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