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Partigiani come terroristi

Una scena dal film di Michele Soavi

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I lettori troveranno in questo libro molti nomi di persone sconosciute. Donne e uomini privi di una storia pubblica, scomparsi senza lasciare traccia di sé. Sono persone uccise nel corso della nostra guerra civile. E quasi tutte schierate da una parte sola: quella fascista, raccolta sotto le bandiere della Repubblica sociale italiana, come militanti, combattenti, semplici simpatizzanti, o ritenuti tali da chi gli ha tolto la vita. Ma i lettori dei Vinti non dimenticano leggeranno anche di tanti altri morti che non erano schierati con nessuno. Come i triestini, i goriziani e i fiumani deportati e fatti sparire dalle milizie comuniste jugoslave soltanto perché intendevano restare italiani. (Dalla Nota al lettore - Come celebrare il 25 aprile? - La storia dal basso) All'inizio di un altro weekend di lavoro a Firenze, dissi a Livia: «Adesso è venuto il momento di inoltrarci nei territori dove la resa dei conti sui fascisti sconfitti durò più a lungo nel tempo e fu più brutale. Per questo» aggiunsi, «sarebbe utile precisare da dove siamo partiti: un punto di vista non convenzionale sulla Resistenza, diverso dall'agiografia di comodo che di solito viene spacciata per storia vera.» «Sono d'accordo» convenne Livia. «Ma cerchi di non esagerare.» «In che senso esagerare?» «Nel senso di lasciarsi prendere dal suo gusto per la polemica. Ormai penso di conoscerla bene, caro Giampa. Posso chiamarla così? Lei mi ha detto che questo abbreviativo lo usava sua madre Giovanna. Mi piace Giampa! Suona bene, è sintetico e veloce, dunque adatto ai nostri tempi frenetici.» Livia proseguì: «La sua vis polemica è molto cresciuta in questi anni, dopo l'uscita del Sangue dei vinti. I detrattori che si è trovato contro le hanno fatto un gran regalo e adesso dovrebbero mangiarsi le mani. Ma le consiglio ugualmente di contenere la spinta a ingaggiare battaglie. La utilizzi con misura, le gioverà.» «Consiglio accettato» risposi a Livia. «Allora proverò, con misura, a dirle la mia sui primi passi della Resistenza o della guerra civile, considerata dal punto di vista dell'antifascismo. Per servirmi di un'immagine poco militare, parlerò dell'alba di una fase storica. E aggiungerò subito che fu un'alba quasi tutta rossa. Intendo il rosso delle bandiere comuniste. «Comincerei con qualche dato sui territori di cui le ho parlato prima. Sono quelli del Nordovest italiano, ossia il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Per queste tre regioni le cifre accertate dal gruppo di Michele Tosca parlano chiaro. Dopo la fine della guerra, in Piemonte vennero uccisi 3611 fascisti o presunti tali, in Lombardia 2995, in Liguria 1722. Il totale fa 8328. Se ci aggiungiamo le 3905 vittime dell'Emilia-Romagna, la regione dove è stata ammazzata più gente, si arriva a 12.233 morti. Ossia a più della metà dei 20 mila fascisti accoppati in Italia quando la guerra era già conclusa.» Dissi a Livia: «Se invece osserviamo tutto l'arco temporale della guerra civile italiana, a partire dal settembre 1943, le vittime fasciste, sia civili che militari, sono state nel complesso 46 mila. Devo precisarle che si tratta di persone identificate con un nome e un cognome. Poi ci sono i morti rimasti sconosciuti che fanno aumentare di non poco il totale. Naturalmente, da questo consuntivo sono esclusi i militari tedeschi caduti in Italia e le perdite di altri reparti stranieri che combattevano a fianco della Germania sul nostro territorio». «Lei vorrebbe spiegare ai lettori come è iniziato questo bagno di sangue. È così?» mi domandò Livia. «Sì. Mi sembra opportuno, anche se lo faremo in modo estremamente sintetico. Anche noi abbiamo parlato e parliamo molto di quanto accadde durante la guerra civile. Ma di solito lo facciamo a partire dalla primavera del 1944 in poi, quando tutti presero a sparare tutti i giorni. E invece bisogna iniziare dalle avvisaglie, quelle dell'autunno-inverno 1943. Perché è in quella fase che emerge il connotato primario della lotta partigiana, il suo Dna: il terrorismo.» «Il terrorismo?» si stupì Livia. «Sì. Del resto, non saprei in quale altro modo chiamare una tecnica sanguinaria, ma efficace: gettare nel panico il nemico e annientarlo sparando contro singole persone, quasi sempre indifese. Ricorda come si muovevano le Brigate rosse negli anni Settanta e Ottanta? Bene, è la stessa tecnica. Del resto, i killer delle Br si consideravano gli eredi dei terroristi comunisti della guerra civile. E con ragione, penso io. «Ma prima di arrivare ai delitti del 1943, è opportuno dire qualcosa sul clima politico di quel tempo. Per cominciare, bisogna accennare a una verità che gli agiografi della Resistenza dimenticano sempre. In quell'autunno erano ancora molti gli italiani che avevano fiducia in Mussolini…» (...) «Nell'autunno 1943» continuai, «avevo 8 anni e mi ricordo bene certe discussioni in casa mia. Nessuno era fascista, anche se qualcuno si era iscritto al Pnf perché doveva farlo in quanto dipendente pubblico. Ma tutti temevano la reazione dei tedeschi. Avevano visto che erano bastati quattro o cinque paracadutisti con l'elmetto a pentola per rastrellare i soldati sbandati rimasti in città e rinchiuderli nelle caserme. E poi avviarli alla prigionia in Germania. (...) «E dei primi Comitati di liberazione che cosa mi racconta?» domandò Livia «Che contavano molto poco, per non dire quasi nulla. Certo, ne facevano parte uomini coraggiosi e da ammirare. Tutti sapevano bene che cosa stavano rischiando. Come minimo, la deportazione nei campi di sterminio tedeschi. Eppure i Cln sorsero quasi dappertutto, anche nei piccoli centri. Quella fu la prima generazione dei Comitati. Ed era fatale che risentisse della debolezza dei partiti politici di cui erano l'emanazione. (...) «Per tutto questo, i comunisti italiani non vivevano in mezzo a un deserto, come accadeva ai democristiani, ai socialisti, ai liberali e agli azionisti. Il Pci poteva contare sul potere sovietico, una parete d'acciaio alla quale appoggiarsi, uno scudo in grado di proteggerlo. La strategia di Mosca, quella di espandersi nel resto dell'Europa, era diventata la strategia del Pci. (...) Il regime fascista aveva commesso un errore che si sarebbe rivelato fatale dopo il 25 luglio: a Ventotene era stato mandato mezzo vertice del Pci clandestino. Non parlo di Togliatti che viveva tranquillo a Mosca, coccolato da Stalin. Parlo di Luigi Longo e di Pietro Secchia, che in seguito avrebbero guidato i partigiani comunisti in tutta l'Italia occupata. Con loro c'erano Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda, Girolamo Li Causi e Battista Santhià, l'operaio meccanico piemontese che era stato con Antonio Gramsci nel quotidiano “L'Ordine Nuovo”». (Dalla Parte Quarta, capitolo 18: Gappismo)    

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