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«Lilliburlero» fischiettavano i pirati dell'Isola del Tesoro di Stevenson alla ricerca dei dobloni con in mano la mappa del capitano Billy Bones.

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Chissàse oggi, trecento anni dopo, i nuovi «pirati» quelli della finanza, armati di sola valigetta e gessato grigio, canticchiano la stessa armonia quando si presentano agli sportelli delle banche di Turks e Caicos, di Antigua e Barbuda o anche di Saint Lucia ormai stranota per le peripezie di Giancarlo Tulliani, cognato di Gianfranco Fini. Già, la giungla di palme da cocco è rimasta. Ma nelle vecchie isole del Tesoro i sentieri sono diventati strade mattonate ai cui lati spiccano insegne discrete di banche private e finanziarie pronte a stendere tappeti rossi ai capitali senza nome. Dall'isola del Tesoro al paradiso fiscale il passo è breve. O meglio inesistente. Il luogo fisico è sempre lo stesso: un'isola. È sempre lì che il tesoro è nascosto. Forse perché, in metafora, l'atollo circondato dalle acque è il luogo dell'altrove e dell'introvabile. E quale posto migliore, dunque, per parcheggiare liquidità, più o meno pulita, ma che cerca una sola cosa: tenersi lontano dalle mire predatorie di un fisco sempre più invadente e spietato. Introvabile appunto. Epoche diverse. Stesso destino. Così le isole caraibiche sono state sempre dei forzieri. Ieri piene di sterline d'oro. Oggi di dollari e di euro. Le caverne non sono certo più i luoghi migliori per nascondere profitti illeciti o non dichiarabili. Troppo umide per la cartamoneta. Al loro posto sono fiorite comode stanze dotate di aria condizionata nel quale depositare e custodire miliardi di banconote poco cristalline. Sicuramente meno del mare che circonda i paradisi dell'off-shore. Quello è rimasto lo stesso che veniva solcato dall'Hispaniola del capitano Smollet oppure da Emilio di Roccabruna, o Roccanera, signore di Ventimiglia e di Valpenta, alias il Corsaro Nero di Emilio Salgari. Anche il Corsaro si imbarca alla volta della Tortuga per diventare filibustiere. Quell'isoletta a forma di Tartaruga c'è ancora, ma oggi non compare nella lista dei paesi cattivi che un arbitro internazionale, una organizzazione come l'Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), ha stilato chiamandola black list: lista nera, chissà forse anche in onore del pirata salgariano. Ma tant'è. Le isole tropicali che nella letteratura hanno sempre rappresentato il rifugio per i sogni e l'avventura oggi sono finite nel mirino della comunità internazionale. Altro che pirati e casse piene di gioielli. Oggi nei paradisi arrivano flussi di denaro che sfuggono alle alte tasse dei paesi occidentali. Ieri fenomeno tollerato anche dalle grandi nazioni. In fondo a chiunque poteva far comodo un conto ad Aruba o alle Antille. Oggi non più. Le economie sono in crisi, i contribuenti versano meno. E i governi sono alla ricerca di fondi per tappare i buchi nei bilanci. Per questo i paradisi stanno diventando sempre più rifugi di Satana, da combattere e debellare in nome di chi, nei paesi normali, continua a vivere di onestà. Già sconfitti i pirati, e scoperti i loro tesori, le isole a tassazione zero sono state invase da nuove orde di filibustieri. Giovani avvocati d'affari come Mitchell McDeere de «Il Socio» di John Grisham che dopo una vita di stenti insieme alla moglie Abby all'Università di Harvard, trova un lavoro estremamente redditizio a Memphis in uno studio legale semisconosciuto. Bella vita e viaggi alle Cayman Islands. Con un piccolo particolare. Le isole del paradiso si trasformano ancora una volta in un inferno nel quale il denaro della mafia americana cerca un'illusoria redenzione. Tutto finito. Almeno sembra a giudicare dall'adesione dei paradisi alle convenzioni dell'Ocse in tema di riciclaggio e tassazione dei capitali. I pirati non ci sono più, dobloni e dollari ce ne sono sempre meno. Al paradiso non resta che la palma.

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