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Ricominciamo dalla nobiltà di spirito

Il poeta Walt Whitman

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Thomas Mann definì la nobiltà di spirito come il solo correttivo possibile alla storia umana. «Lì dove scompare questo ideale, scompare la civiltà», diceva l'autore di La montagna incantata, che nel 1938 lasciò con i genitori la Germania per stabilirsi negli States. A ricordare la sua raccomandazione a Rob Riemen - il filosofo fondatore dell'olandese istituto Nexus che organizza incontri con i maggiori intellettuali del mondo - fu la figlia stessa di Mann, Elizabeth, oceanografa e moglie di un intellettuale italiano antifascista emigrato oltreoceano, Giuseppe Antonio Borgese. E lo fece durante un incontro che Riemen confessa indimenticabile per il posto e la data: il River Café di New York nel novembre 2011, due mesi dopo l'attentato alle Torri Gemelle. Il «flash back» dà l'avvio al libro di Riemen appena uscito, «La nobiltà di spirito - Elogio di una virtù perduta» (Rizzoli, 190 pagine, 16 euro) dove l'orrore di Ground Zero («Orrore, orrore» ripeteva il conradiano protagonista di Cuore di tenebra) pare trasparire in filigrana da ogni pagina. Riemen vagabonda nelle vette del pensiero occidentale. Ovvero nelle radici della tradizione europea, tanto per chiarire il riferimento ideale che spesso le smanie di globalizzazione mettono nel cantuccio. Il fine è ritrovare il cammino della virtù perduta. Ma, prima di tutto, che cosa è nobiltà di spirito? Un'attitudine senza dubbio umanistica. Che parte dalla frequentazione, dalla conoscenza, dell'adesione ai classici greci e latini. E qui non si fa l'inno passatista alle «lingue morte» - anche se liquidarle sbrigativamente dal sapere è liquidare mezza identità dell'uomo attuale - ma si invita a lasciare spazio alla lettura di Socrate, di Platone, di Cicerone, e di Saffo e di Catullo perché no?, alla problematicità della loro visione del mondo, all'inesistenza di qualsiasi indizio di pensiero unico. Ma che cos'altro è nobiltà di spirito? Il corollario del metodo dei pensatori e degli autori citati. Ovvero la centralità, nelle società che vogliano definirsi civili, della conversazione. Lo scambio di idee. Il fascino che scaturisce - scrive nell'introduzione al saggio George Steiner, instancabile indagatore dei meccanismi che regolano potere, barbarie e cultura - «dal dialogo e dai processi nascosti grazie ai quali dal disaccordo verbale può emergere un'intuizione». Come avviene nei «simposi platonici, nonché negli impareggiabili dibattiti intellettuali ed emotivi della Montagna incantata di Mann». Insomma, finché possiamo continuare a parlarci, si potrà sperare nella civiltà e nella ricerca della verità. Ritornando così al metodo socratica, che liberalmente elegge la confutazione delle opinioni e dell'ordine costituito a bussola della vita. Ma questa non è epoca di valori umanistici. Lo dimostra l'avanzare della barbarie. Non solo i totalitarismi del secolo breve, ma anche i fondamentalismi che fino a ieri hanno insanguinato l'Oriente o tentato, a Londra, di uccidere Benedetto XVI. Oggi l'alta cultura non è di derivazione umanistica ma tecnologica. L'eccellenza è nelle scienze naturali e nell'informatica, imperano Galileo e Darwin. Quanto alla democrazia, il suo allargamento si basa sul livellamento ugualitario dell'istruzione e sullo strapotere dei mass media, che non consentono di discernere. In tv tutti parlano. Anzi, strillano. È la rissa che fa audience. Anche così la nobiltà di spirito va a farsi friggere.

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