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Affleck infiamma il Lido e s'ispira a "Gomorra"

Rebecca Hall, Ben Affleck, Jon Hamm

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Il sex symbol Ben Affleck ha fatto ancora una volta centro con il suo avvincente thriller poliziesco dai toni nostalgici, «The Town», purtroppo fuori concorso alla Mostra di Venezia. Già Coppa Volpi sul Lido nei panni dello sfortunato attore George Reeves, Ben ha infiammato i fan in una giornata lagunare travolta da un nubifragio che per la seconda volta, quest'anno, ha messo fuori uso la sala stampa del festival. Il regista che interpreta anche il film accanto a Rebecca Hall e Jon Hamm, stavolta torna a casa, nella sua Boston, la città delle 300 rapine l'anno, per vestire i panni di Doug MacRay, un duro dal cuore tenero, mente di una banda di rapinatori e assassini, per giunta innamorato della bella direttrice di banca che non sa dei suoi loschi giri. Tra i due è amore senza riserve, ostacolato però da raggiri e violenze sia da parte dell'Fbi sia dalla banda di Doug. Un bel film davvero, molto applaudito, pieno di ritmo e dialoghi, che fa invidia a certe (forse troppe) storie tristi e deprimenti che si ripetono nelle produzioni italiane. Hollywood, che piaccia o no, sa realizzare belle pellicole e, anche se non sempre sono capolavori, è pur certo che in proporzione gli americani sbagliano meno dei registi italiani. E non si può sempre dare la colpa alla crisi economica «Voglio continuare a fare il regista - ha esordito con determinazione Affleck elogiando poi il fratello minore Casey che ha debuttato alla regia proprio in questa edizione del Festival di Venezia con il documentario "I'm Still Here" - Per il mio film mi sono ispirato allo stile di "Gomorra" e uso la parola omertà, che è stata utilizzata da Garrone e ancora prima da "Il Padrino"». Sull'onda delle polemiche del film di Placido su Vallanzasca, Ben Affleck ha spiegato che anche lui si era posto il problema etico di raccontare o no la vita di un criminale, «ma alla fine ho deciso di scrivere una storia veritiera, perché anche i geni del male vanno raccontati nei film per adulti». Due invece le pellicole in concorso che hanno scandalizzato ieri la laguna: «La Venere nera» di Kechiche, che rappresenta la Francia e ha criticato fortemente la politica di Sarkozy definendola "spaventosa", e «Attenberg» della greca Tsangari. Il primo lungometraggio punta sulla storia vera di una donna che, dopo aver lasciato nell'800 l'Africa del Sud con il suo padrone, fu esposta alle fiere come un animale, finché il suo corpo "anomalo" venne vivisezionato dagli scienziati parigini. Mentre Tsangari ha messo in scena un film scandalo, tra baci saffici e scene di sesso etero esplicito, per animare le vicende di una giovane che si affaccia al mondo e alla sessualità. Applausi meritati, infine, per il raffinato "Sorelle Mai" di Marco Bellocchio (fuori concorso) incentrato sulla vita delle sue due zie di Bobbio, costrette a una vita solitaria e ad evitare il matrimonio secondo le usanze di una volta. Per Bellocchio (al quale non è piaciuta la rivisitazione di un Mazzini terrorista nel film «Noi credevamo» di Martone) «oggi nel nostro Paese non ci si indigna più, stiamo vivendo un periodo che fa pensare a certi momenti bui della nostra storia. E occorre persino stare attenti alla sorellanza che, come evoco nel film, è una prigione confortevole ma anche una trappola protettiva», ha concluso il regista che si accinge ora a preparare una pellicola su «La monaca di Monza».

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