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Il regista e architetto Amos Gitai, figlio di un importante architetto israeliano, ha creato un video-poema, «Ninnananna per mio padre», per ricordarlo.

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IlPadiglione di Israele, a Venezia, celebra i 100 anni del kibbutz e lega un'architettura originale ad un altrettanto originale modo di vita fondato sull'uguaglianza, sull'aiuto reciproco e sulla distribuzione di ogni proprietà individuale e familiare: il kibbutz. Il kibbutz non è né una filiazione del socialismo europeo, né comunismo arcaico. È un'altra cosa. Allora, di che si tratta? Intanto, un po' di storia, per addentrarci in un territorio ideologico, non così distante da noi, come potrebbe apparire ad una prima, superficiale lettura. Il primo kibbutz risale all'inizio del XX secolo, a Degania, a sud del Lago di Tiberiade. Siamo nel 1909. Il kibbutz diventa ben presto il nerbo e l'ossatura dello sviluppo, non solo econonomico, di Israele. Nei kibbutzim si sono formati intellettuali, scrittori, ingegneri, architetti. È una fucina di umanità ricca e creativa. E poi, in un momento di stato nascente dello Stato di Israele, un'organizzazione reticolare e complessa come quella dei kibbutzim ha rappresentato il volano del sionismo socialista. Politica, economia e cultura si sono strettamente intrecciate in questi luoghi così particolari. Il kibbutz non è la comune degli anni Settanta. È la versione secolarizzata dell'organizzazione religiosa collettiva ebraica, facente capo tanto all'ebraismo ortodosso, tanto alla kabbala mistica, radicalmente criticata da Scholem, l'amico di Benjamin, ebreo ateo e apocalittico, e da larga parte della teologia ufficiale ebraica. In Israele non esiste l'ateismo di Stato. Tutto è attesa di un Messia che, di epoca in epoca, muta fisionomia e contorni. Dunque, niente paragoni ideologici e astratti: siamo in Israele, c'è il popolo eletto e la cultura semitica, pragmatica e religiosa. I kibbutzim hanno vissuto un periodo di declino, a seguito dello sviluppo delle forze produttive, sociali e tecnologiche, ma non assistiamo ancora all'estinzione di questa singolare forma di organizzazione sociale ed economica. Forse perché non si tratta soltanto di società e cultura, ma c'è dell'altro. La stessa missione collettiva legata allo Stato di Israele e alla sua forte carica comunitaristica e nazionale. Del resto, la direzione del kibbutz ha il suo nerbo nell'educazione dei bambini e degli adulti. In Italia e in Europa, non si muove foglia che l'ideologia non voglia e così i kibbutzim sono stati presi d'assalto, al pari dei campi di lavoro a Cuba, dalla solita genìa di radical-chic gruppettari e di solito ignoranti, che, per moda, si sono sottoposti a cose che, altrimenti vissuti, avrebbero potuto farli crescere in maniera critica ed equilibrata. È accaduto con la forma-kibbutz. Lorsignori mai avrebbero potuto immaginare che i kibbutzim sarebbero passati dallo sviluppo sistematico di attività agricole alle lavorazioni attuali di materie plastiche e di elettronica. Ciò a dimostrazione del fatto che, in queste comunità, si vive sul piano orizzontale, pur con una ristretta élite di direttori di campo, per così dire, ma non con la testa a cercar farfalle. A.D. Gordon, un vecchio idealista e membro attivo del movimento del kibbutz, scrisse acutamente: «Se vi interessa la vita del kibbutz, o qualsiasi altro genere di struttura, non considerate la struttura medesima come una sorta di barile in cui la gente deve essere stivata, schiacciata come sardine in scatola, per poi essere accuratamente selezionata ed estratta (...) Gli esseri umani sono fatti di vita, di movimento. Dentro di loro c'è un universo intero. Iniettate questa vitalità, questo universo nella vostra struttura e poi forzate la struttura in ogni sfera della vita umana e in ciascun universo. Solo allora essa sopravviverà tanto quanto la vita stessa e l'universo».

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