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Quando si cresceva in parrocchia

Chierichetti

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Una liturgia che allora comprendevo poco ma dalla quale mi sentivo attratto e la voglia di stare insieme con i miei coetanei. Sono state le due molle che ormai tanti anni fa mi spinsero a dire a mia madre che volevo fare il chierichetto. Avevo otto anni e avevo appena fatto la Prima Comunione. I miei a quell'epoca erano cristiani da Messa domenicale, nulla di più. Una fede che col tempo si è via via più radicata, forse proprio partendo da quella esperienza di «ministrante», come si chiama ora. Abitavamo in un quartiere popolare della periferia romana, a Casal Bruciato. Erano tempi di contrapposizioni forti, barricate per strada con i copertoni bruciati dagli sfollati del Borghetto Prenestino e il terrorismo che arrivava letteralmente sotto casa. La nostra parrocchia era San Giovanni Battista al Collatino, tenuta da sacerdoti dell'Opus Dei, sorta pochi anni prima in una vera terra di frontiera. Era stato Giovanni XXIII a chiedere al fondatore dell'Opera, S. Josemaria Escrivà, di realizzare un complesso che si prendesse cura di giovani, operai e famiglie nella periferia romana. Nacque così il Centro Elis (Educazione, lavoro, istruzione, sport) e, lì accanto, la parrocchia, inaugurata da Paolo VI nel 1965. Ma non erano direttamente i preti ad occuparsi dei chierichetti. Mia madre andò a parlare con il parroco, don Francesco Angelicchio (che una ventina d'anni più tardi ha celebrato le mie nozze e se n'è andato in Cielo qualche mese fa) il quale ci indirizzò da un ragazzo spagnolo, Martin, che, oltre alla sua attività professionale, si occupava dei ministranti. Me lo ricordo ancora: basso, asciutto e sempre sorridente. Un fisico da maratoneta (e infatti partecipò a diverse gare con buoni risultati) e un'allegria contagiosa. In breve tempo, si formò un gruppo di ragazzini (all'epoca era inimmaginabile che le bambine servissero all'altare) che però non si limitava a partecipare alla S. Messa. A poco a poco imparai le varie fasi della liturgia. C'era una cura particolare in tutti gli atti e i gesti. Con una caratteristica che mi è rimasta addosso, come una seconda pelle: fare tutto per amore dell'Eucarestia. Sull'altare, dopo il celebrante, eravamo i più vicini a Gesù: un autentico privilegio. Ovviamente nella nostra formazione intervenivano anche i sacerdoti. Ricordo con emozione don Francesco che ci spiegava con grande affetto e il suo marcato accento romano come fare il segno della Croce: «Non state mica a scaccia' le mosche...». Oppure la genuflessione, davanti al tabernacolo (non all'altare...), con il ginocchio destro fino al pavimento e un pensiero di adorazione rivolto al Santissimo Sacramento. Dettagli che significavano appunto l'amore per una Persona viva, presente sotto le spoglie dell'Ostia consacrata. Mai recita, mai formalismo. E soprattutto, lontanissimi dal clericalismo bigotto. I preti facevano i preti, noi eravamo ragazzi, pieni di entusiasmo, che prestavamo un aiuto: la «roba di sagrestia» non ci riguardava. Amen. E non eravamo certo mammolette... Anche quando si trattava di servire la Messa.   Per esempio quando ero un po' più grandicello, c'era un altro ragazzo, Angelo (con cui si è cementata un'amicizia ormai trentennale) con il quale facevamo letteralmente a gara per arrivare prima. Il motivo era semplice: siccome c'era una sola cotta della nostra misura, chi arrivava dopo doveva indossare quella più corta, che giungeva a mala pena allo stinco... Ma la nostra formazione non si limitava al servizio liturgico. Sono indimenticabili le gite in montagna che facevamo con Martin, soprannominato «Tachin, el hijo del alcalde», perché il padre era il sindaco del suo paese d'origine. Camminate a Monte Livata o nelle Grotte di Celano in cui ci divertivamo un mondo ed erano l'occasione per imparare molto sulle virtù: condivisione, generosità, fortezza, lealtà, sincerità, laboriosità. Un modo per «seminare» in ragazzini di dieci, dodici anni una vita cristiana su una base solidamente umana, senza stranezze né distintivi. Principi che sono diventati un bagaglio di vita. Nei cinque o sei anni della mia «avventura» ero diventato sufficientemente esperto da insegnare ad altri «bambini» come comportarsi nel servire la Messa, trasmettendo la mia esperienza. Detta così, sembra chissà cosa! E invece era tutto molto semplice. Ma emozionante. Chi si dimentica le temute ampolline con l'acqua e il vino che traballavano su un minuscolo vassoio di vetro nel breve tragitto (tre o quattro metri) tra il tavolino su cui erano preparate e l'altare? Era sicuramente il compito più «pericoloso»: per fortuna non sono mai cadute... Però gli incarichi più ambiti erano altri. Che di solito, se servivamo in due, ci dividevamo equamente.   Il primo era suonare il campanello. A quei tempi c'era la consuetudine di usarlo diverse volte: prima della Consacrazione, all'elevazione dell'Ostia e del Calice, quando il celebrante si genufletteva per adorare e ancora dopo l'«Agnello di Dio». E il campanello della nostra parrocchia non era mica un affarino striminzito. Aveva quattro batocchi e un grosso manico: venivano certe scampanellate... Per non parlare di quella durante il Gloria della «Messa in Coena Domini» del Giovedì Santo. Il secondo era accompagnare il sacerdote con il piattino alla distribuzione della Comunione, che all'epoca si riceveva rigorosamente in ginocchio e mai in mano. Ed erano inevitabili le occhiate (diciamo pure con un pizzico di orgoglio) lanciate a genitori e amici. L'ultima volta che ho indossato quella «tonaca» rossa è stato durante una veglia di Natale, nel 1977 o forse l'anno dopo. Ormai ero diventato una sorta di «capochirichetto» (insieme al mio amico Angelo...). Un'uscita in grande stile, manovrando il turibolo con l'incenso, un onore riservato solo ai chirichetti più esperti. Ovviamente non era la prima volta. Ma quella notte di Natale resta tra i ricordi speciali.

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