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Caravaggio superstar non basta L'arte di oggi resta nel cantuccio

Caravaggio in mostra in occasione del centenario

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Vabbè che Caravaggio è Caravaggio, e il quattrocentenario della morte l'aspettavamo con ansia appunto da quattrocento anni. Vabbè che anche sabato notte, non contenti di essersi sudati le diciotto canicolari ore appena trascorse, 25 mila romani e non si sono accatastati - con altri inarrestabili rivoli di salmastra traspirazione - nei luoghi deputati del Merisi per bearsi di San Pietri crocifissi a testa in giù e di Giuditte gaudenti davanti alla macabra testa del Battista. Ma, pur proni davanti all'allure del lombardo morto a Porto Erole, pur allumacati davanti ai suoi sanguigni personaggi, pur assoggettati alla generale fascinazione a bocca aperta, non ci tocca un barlume di critica (o autocritica)? Che so, un'ideuzza di comparazione, un pungolo di discernimento? Insomma, non ci ha stufato questo Caravaggio in tutte le salse, appetitose e avariate, doc e contaminate? Perché sì, l'Evento-Caravaggio, tra vigilia ed epilogo, durerà due anni. Svariando dalla mega mostra alle Scuderie del Quirinale alle cento e cento mostrine sparse nel volenteroso Stivale. Dove di Caravaggio non c'è neanche la puzza, ma tutt'al più, i suoi seguaci, i caravaggeschi, o anche, per li rami, quelli influenzati alla lontana alla lontana...Così si continua, tra pacchetti turistici (tre notti più visita alla tal mostra) e interrogativi gastronomici (in quella natura morta c'è una gallina o un cappone, e com'è il cappone alla Caravaggio?). Fino al capolavoro macrabro, allo show necrofilo di riesumare le presunte ossa del Nostro, dopo aver scomodati i poveri resti contenuti in decine e decine di sepolcri nel cimitero di Porto Ercole. E a compararli col Dna dei «parenti» lumbard, scoperchiando anche qui tombe, per annunciare poi trionfalmente che si tratta di tibie o scapole autentiche all'85 per cento. Come dire che il rosa è quasi rosso ma rosso non è. Senza contare infine i dipinti del Sommo che spuntano fuori a orologeria. Giusto tre giorni fa - alla vigilia della notte bianca caravaggesca - quello sbattuto in prima pagina dall'Osservatore Romano, foglio ora uso anzichenò agli scoop, mica come una volta che era in bianco e nero e su ogni fatto andava col freno a mano. Ma tant'è, lo showbiz dell'arte questo offre. Il Bel Paese s'eccita soltanto con cinque o sei glorie del passato: il «maledetto» Caravaggio, il vigoroso Michelangelo, tutt'al più il soave Raffaello. E poi, che altro abbiamo prodotto? Perché non andiamo oltre, proviamo altre strade, azzardiamo altri nomi? Perché l'arte contemporanea resta in disparte, mentre all'estero un Moma nella Grande Mela ospita con successo da Tim Burton a Marina Abramovic o una Tate Gallery londinese prepara un autunno da boom con Mark Rothko? Nella Capitale, è vero, parecchio si è mosso, con le recenti aperture del Maxxi e del Macro. Un'ubriacatura la loro inaugurazione in contemporanea. Nel museo di via Guido Reni l'happening oceanico - peraltro a inviti - sommato agli altri primi 25 giorni di visite a pagamento ha calamitato 74.114 visitatori, con una media giornaliera di 1.754 persone. Pompata appunto dal boom dal battesimo e dalla curiosità della nuova struttura piuttosto che dall'interesse per le opere esposte. Caravaggio alle Scuderie del Quirinale ha avuto 600 mila visitatori da fine febbraio a giugno, 5 mila al giorno, 11 mila nelle ultime 24 ore di esposizione. Il confronto tra il divo del Seicento e le starlette di oggi è impietoso. A spiegarsi il perché la saggia Gertrude Stein: «I contemporanei non sanno nulla dei contemporanei». Talché nessuno, nella Roma del Seicento, o a Napoli, o a Palermo, figuarsi poi a Malta, si sarebbe mai sognato di mettersi in fila all'alba per guardarsi un Caravaggio. Ma c'è dell'altro, c'è da distinguere. Tra contemporaneo-contemporaneo, ovvero l'arte di oggi, e il contemporaneo un po' più stagionato o soprattutto caratterizzato da altri stilemi. Dice Gino Agnese, presidente della Fondazione Quadriennale, istituzione capitolina deputata a fare il punto e a promuovere l'arte italiana odierna: «Il contemporaneo-contemporaneo designa opere che per il 90 per cento delle persone non hanno status di arte. Insomma, se metto a terra, poniamo, una bottiglia sottosopra e ci sistemo in cima una moneta o qualche altra stramberia, questo non è percepito come manufatto d'arte. Lo iato - avverte Angese - è avvenuto con l'abbandono del figurativo. È il discrimine che ha allentato e dissolto ogni più comune possibilità di giudizio. Nel figurativo si può valutare un albero, un paesaggio, sussiste insomma la possibilità di un colloquio con chi guarda. De Chirico, i macchiaioli sono dunque facili, comunicativi. Ma appartengono già al passato. A nche nell'astratto riesce a continuare la partecipazione del pubblico: che soppesa l'equilibrio dei colori, delle forme, e dunque sa formulare un parere. Ma quando si svapora in strane installazioni, allora il circuito della comprensione, e della partecipazione, si annienta. E subentra il disinteresse». Però all'estero non accade. «All'estero - spiega Agnese - sussiste una rete potente di gallerie. Gli Usa sono d'esempio. Qui opera anche una grande quantità di istituti univesitari che coltivano e promuovono il contemporaneo. Il mercato è fiorente. Anche da noi, per la verità. Ma è ristretto. E mercanti e critici danno per scontato di agire in un ambito limitato, quasi si cullano nel loro elitario mondo. Achille Bonito Oliva le chiama le tribù dell'arte. E dunque non fa impressione che nella Capitale gli interessati a un evento contemporaneo possano al massimo essere duemila. Fece scalpore il risultato della Quadriennale del 2008: 33 mila visitatori paganti, grazie anche a un grande impegno mediatico. Un'eccezione. Ma in genere l'arte di oggi, a differenza della politica, della finanza, è aristocratica, per pochi. Non c'è entrata la democrazia».  

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