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La Fanciulla del West ha compiuto cent'anni.

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Alpari, del resto, di tutte le altre eroine pucciniane. Ma quest'anno la gran festa è per lei, Minnie, che il 16 ha inaugurato la stagione di Torre del Lago (repliche 23 luglio e 7 agosto). Con un nuovo allestimento modellato dallo scultore Franco Adami che, però, con le sue astrazioni geometrizzanti, ha suscitato l'ira funesta di buona parte del pubblico, affezionato all'immagine di locande, capanne e boschi che assomiglino a locande, capanne e boschi, senza provocazioni avanguardistiche che strapazzino le suggestioni tradizionali. Un bel po' di fischi, dunque, per l'"opera scolpita" di Adami, i costumi di Giovanni Fiorentini e la regia di Kirsten Harms; applausi scroscianti, invece, per il maestro Alberto Veronesi e i carismatici protagonisti Daniela Dessì (Minnie), Fabio Armiliato (il bandito Ramerrez- Johnson), Carlos Almaguer (lo sceriffo Jack Rance). Ma ora ci sembra il momento giusto per riproporre una domanda "curiosa": "La fanciulla ..." è, in qualche modo, una sorta di "western all'italiana" prima di Sergio Leone? Beh, che il colore, il calore, le passioni estreme, il bene e il male che si intrecciano, il giuoco del destino abbiano certi tratti "mediterranei" è fuor di dubbio. E diciamo anche che Puccini, da sempre tentato dalle sfide al "tavolo verde", vinse la sua scommessa: raccontare, da arci-italiano, l'America agli americani, in un linguaggio lirico-epico di grande potenza suggestiva, ma facendo leva sui documenti. Era dal febbraio del 1904 e cioè dal fiasco di Madama Butterfly alla Scala che il Maestro inseguiva il suo riscatto. E non dimentichiamo che alle amarezze "professionali" si aggiungeva un "privato" tumultuoso: la signora Elvira non ne poteva più del suo "farfallone amoroso" e non si erano sopiti gli echi dello scandalo suscitato dal suicidio della domestica Dora Manfredi, accusata, sembra ingiustamente, di una tresca col bel Giacomo. Al quale, diciamo così, "si accese una lampadina", assistendo, nei primi mesi del 1907 a New York, al dramma di Davide Belasco "The girl of Golden West. Era la storia giusta: la "novità" americana, una donna che accende desideri, innescando conflitti e sconvolgendo le cifre consuete di "buono" e "cattivo", la "piena" di emozioni, suggestioni "esotiche", sorprese, "effetti speciali". Il tutto con lo sfondo fascinosamente "barbarico": la California dei cercatori d'oro. È qui che Minnie, giovane e bella padrona della locanda "Polka", tira fuori il suo carattere dolce-grintoso , ora confortando, ora tenendo a bada a colpi di versetti biblici, i minatori immalinconiti perché lontani da casa. Ma quando dà fuoco ai sensi dello sceriffo Rance e del bandito Ramerrez-Johnson, ovviamente innamorandosi del secondo e mettendocela tutta per redimerlo, alla faccia del primo, inseguitore e persecutore, e dei minatori inclini alla giustizia sommaria, ecco che nascono i guai. E l'"happy end" non scioglie la tensione: chissà che cos'altro riserverà il destino alla impetuosa e al suo bel tenebroso, che si allontanano dal campo dei minatori cantando "Addio mia California". Insomma, come sempre Puccini crea dei personaggi veri e vitali, e non tira fuori fervorini moralistici. Il pubblico yankee targato 1910 (10 dicembre, New York, Metropolitan) resta un po' perplesso, ma applaude. Anche perché il Maestro, che ha affidato il libretto a Guelfo Civinini e a Carlo Zangarini, ha lavorato bene dal punto di vista della ricostruzione d'ambiente, con tanto di melodie "identitarie", da quella del "mistrel" Jack Wallace alla ninna-nanna della squaw pellerossa Wowkle, al canto dei cercatori d'oro " Dooda day". Anticipando, appunto, come ha scritto il critico Cesare Orselli, "con un'esattezza assoluta il carattere di tanti commenti musicali di film western a venire". E la direzione di Arturo Toscanini, pessimo carattere, ma vera e propria "bacchetta magica", è strepitosa.

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