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(...) dell'associazione degli industriali è un buon modo per comprendere perché l'Italia è oggi il regno del contrasto: la creatività e il lavoro da una parte, il sistema pubblico e lo Stato dall'altra.

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"Centoanni di imprese. Storia di Confindustria 1910-2010" edito da Laterza è un indispensabile baedaker per chi vuole capire che cosa sia stata ieri e cosa sia oggi l'impresa italiana e l'associazione che la rappresenta. Confindustria non è l'unica sigla del mondo imprenditoriale, ma la Confederazione creata a Torino il 5 gennaio del 1910, dopo un secolo di storia, è ancora quella più forte, autorevole, presente sul territorio. È una rete di alleanze grandi e piccole che in cent'anni ha espresso un pezzo importante della classe dirigente del Paese, certamente quella migliore, più appassionata, realista, pragmatica, liberale in un Paese dove i liberali erano politicamente minoranza, elite incompresa. È la storia di un Paese agricolo che diventa potenza industriale, di un disarticolato sistema corporativo che cerca di farsi nazione, di un'Italia che oltre all'indipendenza politica cercava - e cerca ancora - l'indipendenza economica. Agli albori di Confindustria, questo era un obiettivo comune, bipartisan si direbbe oggi. Come scrive Castronovo, non si poteva "restare potenza di rango minore" e questa missione era condivisa anche da "quasi tutti i rappresentanti della Sinistra costituzionale". È un tempo lontanissimo di cui, in un certo senso, forse bisognerebbe cogliere lo spirito costruttivo di cui oggi c'è grande bisogno. Scorrere il libro significa immergersi in un flashback di nomi e famiglie, i protagonisti di quel capitalismo familiare sul quale - bene o male - l'Italia s'è appoggiata in assenza di una politica forte e stabile. Mi ha colpito molto rileggere, per esempio, le traversie del governo Nitti nei primi anni del Novecento: già allora l'industria italiana sentiva l'inadeguatezza degli esecutivi, la fragilità delle maggioranze, non si fidava dei progetti di "finanza democratica", non poteva accettare i disegni di inasprimento fiscale sui redditi più elevati. D'accordo, era un altro mondo, ma se ci fate caso, il terreno di discussione tra industria e politica, proprio in queste ore, cent'anni dopo è sempre quello. E più si va avanti a leggere le pagine iniziali del libro, più le assonanze sono forti. Sentite cosa diceva Gino Olivetti, segretario generale di Confindustria: "La classe industriale è sempre stata ritenuta come parte della classe dirigente ed accomunata ad essa. In realtà gli industriali - ed è questo il loro gravissimo torto - si sono sinora astenuti dal prendere parte attiva alla vita pubblica. Essi non hanno diretto nulla: non hanno nemmeno esercitato l'influenza della loro competenza in quelle nuove branche dell'attività statale in cui potevano veramente essere utili". Fu fondato il "Partito liberale economico" elesse i suoi sei rappresentanti a Montecitorio, ma proprio nel momento in cui la premonizione di Giolitti si avverò: il blocco liberal-costituzionale aveva perso la maggioranza in Parlamento per effetto della riforma elettorale. La sconfitta del pensiero liberale nel nostro Paese parte da quell'esperienza. Intuizione giusta, contesto sfavorevole. Cent'anni dopo, siamo ancora alla ricerca di un partito che sia depositario vero delle esperienze degli imprenditori. I contenitori che si sono via via succeduti nel corso dei decenni hanno di volta in volta assecondato questo o quel disegno di Confindustria, mai però in modo continuo, organico, coerente. Opportunismo e circostanza. Ne è conseguito un affievolirsi dell'impegno pubblico e la riduzione a "testimonianza" della presenza in Parlamento di tanti industriali, anche di quelli blasonati. Gianni Agnelli, con il suo programma da "principe illuminato" fu il primo a parlare di riforme strutturali. La presidenza di Confindustria auspicava un "nuovo patto sociale dopo quello del 1945", così l'Avvocato evocava la Liberazione ma denunciando contemporaneamente "l'irresponsabile contestazione dell'impresa e del profitto". Agnelli parlò nell'Italia di Aldo Moro e Amintore Fanfani di "un clima di sfiducia e paura". I suoi discorsi ai due "cavalli di razza" della Dc non piacquero. L'uomo della Fiat denunciava l'inadeguatezza di quella che veniva chiamata programmazione economica, proponeva un nuovo patto tra grandi centrali sindacali e impresa. Ripensate a quegli anni: era un manifesto rivoluzionario. E questo, ancora una volta, non fu compreso. Non era uno spostamento a sinistra, ma la riedizione di un programma mai realizzato, l'esaltazione della "borghesia produttiva" al posto di un ceto politico che nel corso dei decenni s'era trasfigurato in un notabilato improduttivo, quello che poi oggi in un crescendo di irresponsabilità e opacità è divenuto il fenomeno de "la casta". Confindustria per molti è sinonimo di grande capitale, eppure passando per le presidenze di Guido Carli e Vittorio Merloni, si coglie la preoccupazione per un deficit di sistema sempre più largo: la perdita di terreno dei grandi gruppi industriali del Paese non poteva essere colmata dallo sviluppo del «capitalismo molecolare» del Nord-Est. Ancora una volta, se ci voltiamo indietro, vediamo i problemi di ieri inseguirci, il passato vestire i panni di un eterno presente, sempre più difficile perché sempre più globalizzato, come ha sempre ricordato Luca Cordero di Montezemolo nella sua presidenza fatta di richiami alla necessità per le imprese di stare nella gamma alta e investire in ricerca e sviluppo. Questa storia centenaria continua con una giovane donna di ferro, Emma Marcegaglia. Chi crede nell'impresa e nel pensiero liberale, oggi guarda a lei come a una speranza oggi per la Confindustria e domani per la politica.

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