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Tonino Guerra e i suoi 90 anni di poesia

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Tonino Guerra, il prossimo 16 marzo, compie novant'anni. Lo conosco da tempo immemorabile ma mi sono molto legato a lui quando, prima di tornare nella sua Romagna dove adesso si è stabilito con Lora, la sua cara moglie russa, viveva a Roma nel quartiere Trionfale. Ci vedevamo quasi ogni giorno mentre lavorava con Andrej Tarkovskij, non ancora esule ma, nelle sue trasferte italiane, "sorvegliato speciale" del KGB. Nel '97, avendo chiesto al Presidente della Repubblica di consegnargli il Premio De Sica alla carriera, mi sono sentito chiedere da un giornalista inesperto, o troppo giovane, chi fosse. Ho risposto, per prima cosa, "un poeta". Poi ho aggiunto. "Un poeta che si esprime con il cinema". Provando comunque il rimorso di tacere delle sue poesie su carta, in dialetto e in lingua. E anche della sua pittura. Perché è di certo un poeta, ma è anche un pittore. Con tutto un mondo da farci conoscere, il suo, e la natura, gli uomini e le cose: quasi con gli stessi segni dei suoi versi ora cantati ora parlati. Nella cui luce - e alla cui ombra - si ritrovano poi anche tutti gli altri "segni" della sua creatività cinematografica. Quella che, dopo il momento solitario e autonomo della pagina bianca cui affidare parole o colori, segna il suo incontro con altri poeti, la comunicazione con altre ispirazioni, con l'obbligo - anche estetico - di accordarvisi senza tradirsi: per restare se stesso sublimando quella "concreazione" in un tutto unitario, frutto di personalità diverse ma sempre in simbiosi. Basterebbero tre o quattro nomi. Fra i maggiori del nostro cinema. Nomi che di solito annientano e che invece, con Tonino Guerra, non solo non hanno mai prevaricato, ma si sono sempre arricchiti in una perfetta comunicazione di poetiche diverse eppure simili, poi limpidamente assimilate. Antonioni, Fellini, Rosi, i Taviani. Nessuno l'un l'altro assimilabile, tutti assimilati a lui, fino ad essere tutt'uno con la sua poetica, ma lui - ecco il momento magico di questa collaborazione - restando lui e loro restando loro. Antonioni con l'incomunicabilità dei Sessanta e, negli Ottanta, con le sue ricerche sul "pianeta donna". Rosi con le passioni che Antonioni escludeva (o circoscriveva) e con le dilatazioni dei temi che l'altro condensava fino allo scarno ed al nudo. Mentre Guerra, soprattutto con Rosi, restava sempre fedele a se stesso anche quando gli impegni urgevano e i sentimenti si affacciavano prepotenti a chiedere spazio ("Uomini contro", e "Il caso Mattei", "Lucky Luciano", "Cristo si è fermato a Eboli"). La polemica politica e sociale sono riusciti a portarla avanti con una voce sola, Rosi con l'ode, Guerra con la riflessione, trasmettendosi a vicenda il calore là dove serviva, il rigore là dove andava temperato il calore. Senza nessuna paura, al momento in cui il sentimento dilagava - in "Tre fratelli", ad esempio - ad aprirgli tutti i varchi, ma alla luce di un modo nuovo di piangere in cui anche il pianto aveva radici nell'estetica e non nei visceri. E così con il "mago" Fellini: uno tutto fantasia e immaginario, l'altro, nella sua poetica, attento al vero e anche all'umile, con ritmi a misura d'uomo. Se c'era però da ricordare le comuni radici emiliane, ecco i due universi - "Amarcord" - trasformarsi quasi in uno solo, con vibrazioni identiche, il reale che diventava immaginato, il sogno che partiva sempre dal concreto: per ritornarvi. Le facce, i caratteri, i luoghi, la tenerezza e l'ironia, la nostalgia e la beffa: nel film avevano la firma di Fellini ma si intonavano sempre alla musica di Guerra, sia alla sua "petite musique" sia alla grande. Con il magico che diventava poetico, la cronaca sollevata fino al verso, l'io di una sottile operazione letteraria. Si potrebbe dire quasi lo stesso per l'incontro di Guerra con i Taviani ne "La Notte di San Lorenzo", il passaggio sfolgorante dal Neorealismo di un tema ad una sua rappresentazione in cifre di musica, di epos e di favola. Dal tutto oggettivo al tutto soggettivo con una originalissima impennata della cultura che tendeva a rinnovarsi. Di Guerra, nel film, c'era persino la sua stessa pittura, i fiori, i campi, "riletti" con il canto. E c'erano i suoi versi e l'equilibrio del suo gusto perché il segno fosse umano, perché, anche nella favola e in musica, la misura - come sempre - fosse l'uomo. Un'opera, insomma, che arrivata dai Cinquanta insieme con Giuseppe De Santis, e segnata anche di preziose tappe internazionali con il grande Thodoros Anghelopoulos, ha finito per proporsi come monumento autentico alla gloria e alla fame di uno dei Poeti Maggiori del nostro cinema. In attesa di nuove tappe altrettanto felici.

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