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«Mia sorella dietro le sbarre del manicomio»

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Matrovano ipocrisia, disamore. E decidono di tornare a vivere separati, in una comunità guidata da nessun altro che da loro stessi. Maraini, perché ha affrontato il tema della follia? «Ho conosciuto la realtà dei manicomi. Mia sorella Yuki cadde in depressione e tentò il suicidio. Fu internata al Santa Maria della Pietà di Roma. Straziante andare a trovarla. A pranzo le davano la carne senza il coltello. Mi diceva: "Come faccio a tagliarla?". In seguito ho realizzato inchieste su ospedali psichiatrici. Il malato di mente era un carcerato. Dietro le sbarre, serrato da chiavistelli, legato al letto. E quell'odore disgustoso che impregnava tutto». Il suo testo è un atto di accusa. «Dei matti si ha paura, per questo la famiglia e la società li rifiutano. Ma diventano violenti perché li si tratta da violenti. Lo dicono gli psichiatri». Ha conosciuto Basaglia? «L'ho visto in più occasioni, a Trieste e a Roma. Mi sono rimasti impressi i suoi occhi chiari e i modi gentili. Sapeva essere problematico, non conosceva prosopopea. La legge che porta il suo nome è stata una rivoluzione copiata in tutta Europa». Che pensa degli attori dell'Accademia della Follia? «Straordinari. In scena con i segni del loro passato. Così veri e insieme così attori». Li. Lom.

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