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Addio Rohmer, genio del cinema

Eric Rohmer

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Era uno dei Grandi del cinema francese. Perderlo significa perdere molte delle possibilità poetiche che avevano tenute alte le sue sorti migliori. L'ho incontrato poco, era schivo, riservato, esitava molto perfino a seguire i suoi film quando venivano presentati ai festival, ma dagli anni Sessanta in poi, dall'inizio cioè dei momenti più pieni, fulgidi e gloriosi della sua carriera, non mi sono perso un suo solo film e qui, su queste colonne, non gli ho mai lesinato quelle lodi che, così prive di riserve, mi era raramente accaduto di tributare a molti altri autori della Settima Arte. E scrivo "Settima Arte" anziché "cinema" perché ogni sua opera è stata solo e sempre illuminata dalla grande luce dell'arte, onorando quel cinema cui finiva per allinearsi. Le sue celebri "serie", veri pilastri di una creatività che ad ogni tappa splendidamente si imponeva. I «racconti morali», in meditatissimo, rigoroso equilibrio fra la letteratura e il cinema: «La fornaia di Monceau» che, pur durando solo 26 minuti, narrativamente e drammaticamente era già di una meravigliosa compiutezza. Poi «La carriera di Susanna», «La collezionista», «La mia notte con Maud», «Il ginocchio di Claire», ciascuno ravvivato da dialoghi preziosi (tra i più belli di tutto il cinema francese) e sempre aperto ad echi in cui, con armonia perfetta, si coniugavano insieme l'amore, la filosofia, la morale e perfino, mai astratti, anche la religione. Con una pausa stupenda fra le "serie", quell'incontro diretto con la grande letteratura che doveva essere «la marchesa von...», da Kleist, in cui quasi miracolosamente riusciva ad assimilare anche la pittura, sublimandola nel cinema con un esperimento che avrebbe anche più approfondito con «Perceval», da Chrétien de Troyes, in cui la poesia e la cavalleria quasi magicamente si fondevano in un unico tutto. Quindi un'altra "serie", «Comédies et proverbs», in cui la commedia accettava l'eredità di Marivaux con modernissima ironia. Sei titoli, tra questi due che ho avuto la fortuna di festeggiare a Venezia quando dirigevo la Mostra, «Le notti della luna piena», premiato per la sua protagonista Pascale Ogier, e «Il raggio verde», premiato con il Leone d'oro. Arrivati ai Novanta, un'altra "serie", «Contes de quattre saisons», con quattro film uno più delizioso dell'altro, «Racconto di primavera», «Racconto d'inverno», «L'albero, il sindaco e la mediateca», «Racconto d'autunno». Con una carriera pronta limpidamente a concludersi nel Duemila, con «La nobildonna e il duca», «Triple agent» e «Gli amori di Astrea e Celadon», esempio felicissimo di una giovinezza artistica cui l'età non aveva segnato alcuna ruga.  

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