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L'ultimo sogno di Sgorlon

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Veramenteessa era sua in modi assai limitati. Lei era nata sì da genitori italiani, ma a Salonicco, Domenico Lunati, suo padre, era un muratore del Nordest, emigrato nel Dodecanneso negli Anni Trenta, alle dipendenze di un'impresa edilizia che operava in quelle isole. Poi la ditta era fallita, ma l'intraprendente Domenico l'aveva rilevata per quattro soldi e ristretta, al fine di adattarla alle sue dimensioni. Tutto ciò era stato possibile perchè aveva ricevuto una piccola eredità del tutto inaspettata da un prozio che aveva fatto il boscaiolo dalle parti di Toronto. poi l'ex muratore s'era trasferito a Salonicco, e aveva sposato un'operaia italiana. Non era improbabile che uno dei motivi che li avevano spinti uno verso l'altra fosse la loro condizione di emigrati e una certa nostalgia per la terra e la gente d'origine. Marianna perciò era una greca non molto legata a quel Paese, quanto piuttosto a quello dei suoi, conosciuto attraverso i loro racconti, gli album di fotografie della famiglia, un certo numero di libri e un breve viaggio alla fine degli studi. Marianna aveva frequentato l'Akademia, ma poi non era entrata in una scuola per insegnare ai bambini un alfabeto e un linguaggio che non sentiva fino in fondo come suoi. Era invece diventata segretaria privata di Zenone Eudoxios, che l'aveva subito assunta benchè non avesse quasi alcuna conoscenza di natura economica. Sapeva bene invece, oltre al greco e l'italiano, l'inglese e il francese perché, a differenza di suo padre, aveva un'ottima attitudine per le lingue. Aveva lavorato per il grande imprenditore circa sei anni, con diligenza serena e con buona resa professionale. Zenone le passava uno stipendio piuttosto generoso, e aveva per lei sorrisi di approvazione, frasi gentili e delicate attenzioni. Ma in queste cose traspariva ben poco dell'incredibile castello di sentimenti e di progetti che Zenone veniva edificando su di lei. L'imprenditore era sposato da una dozzina di anni con una signora della ricca borghesia mercantile di Atene. Costei, di nome Dora, aveva portato in dote un ingente patrimonio, che Zenone, col consenso della moglie e dei suoi parenti, aveva usato per incrementare le sue imprese marittime, commerciali e industriali. Un giorno aveva invitato Marianna a seguirlo in un caffè della Capitale, s'era ritirato in una saletta appartata e vuota, e aveva passato segretamente una banconota al cameriere dicendogli che non voleva essere disturbato per nessun motivo. Poi aveva cominciato un discorso che Marianna non avrebbe mai collocato in un ventaglio di cose possibili neppure nelle sue più audaci fantasie. Zenone le disse: "Tu sai bene che sono sposato". L'impresario aggiuse che oggi v'erano cure per certe forme di sterilità, ma Dora non voleva a nessun patto sperimentarle (...) Quella porta era chiusa con cento chiavistelli, concluse Zenone con evidente malinconia. Ma lui non si rassegnava. Voleva un figlio a ogni costo (...) Zenone a quel punto sembrò smarrire la padronanza di sè, e rivelò una fragilità che Marianna non gli conosceva, perchè di essa finora non era trapelato il più trascurabile segnale. Disse che le avrebbe dato qualsiasi cosa se avesse accettato di avere un figlio da lui; ma non doveva pensare assolutamente che le stesse proponendo una sorta di transazione mercantile. Era da sempre, da quando l'aveva conosciuta, fortemente attratto da lei, anzi la pensava molto spesso ma, essendo un uomo sposato, non osava dirle nulla. Lei poteva capirlo? Si era deciso a farle quel discorso soltanto perchè, da qualche tempo, vedeva un insopportabile vuoto davanti a sè e non sapeva più per chi e per cosa stesse lavorando (...) "Allora? Riesci a capirmi? No, mi pare di no. Scusami e fà conto che non ti abbia detto niente". "Ti renderai conto che la tua proposta è piuttosto inconsueta..." "Mi hai dato del tu... Allora vuol dire che non ti sono indifferente." "Ciò che mi chiedi non è una piccolezza. È una cosa che sconvolge una donna. Che butta all'aria ogni cosa..." "Me ne rendo conto benissimo. Pensaci su fin che vuoi. Non devi guardarmi come fossi soltanto il tuo principale, sono anche un uomo, che vive in un deserto strepitoso." Marianna chinò la testa sul tavolino di legno scuro e stette per un pò in quella posizione. Che faceva? Piangeva e non voleva farsi vedere? Si era offesa? L'aveva ferita? Zenone non sapeva che fare, come uscire dalla situazione di grande imbarazzo in cui si trovava. Visto che lei non diceva niente, dopo qualche minuto le carezzò una mano e gliela baciò. Poi disse: "Vieni, ti porto a casa," "Sai dove abito?" "Ma certo. Via Costantinides numero otto. Primo piano." "E chi te lo ha detto?" "Non chiedermelo, ti prego. Alla mia età certe cose non si dovrebbero fare." Marianna pensò che forse alludeva al fatto che era passato e ripassato sotto le sue finestre, come un ragazzetto. Un versante del suo spirito diventò molle come ceralacca scaldata. E adesso? Per due settimane si diede malata e non andò a lavorare. Zenone si convinse d'averla offesa, spaventata, e non sapeva come rimediare. Scartò l'idea di farle un regalo e anche quella di mandarle dei fiori. Pensò di lasciar al tempo, che era il medico di tutte le cose. Lo si diceva quando in Grecia era ancora viva una civiltà in cui il pensiero e la saggezza erano più importanti del mercato. Dopo un pò Zenone cominciò a dubitare che Marianna sarebbe mai tornata. Spesso dentro di sè la chiamava l'"italiana", anche se conosceva il greco alla perfezione. L'aveva perduta e la colpa era soltanto sua. Avrebbe dovuto parlare e agire in modi differenti, ma non sapeva quali. L'immane lavoro che lo attendeva ogni giorno, recandosi nel suo ufficio, che lui pensava come fosse la plancia di una nave ammiraglia, per dirigere le sue aziende diventava sempre più pesante e sgradito. Era privo di una vera motivazione. Poichè pareva che Marianna avesse rinunciato anche all'impiego, si sentì responsabile pure di questo, e cominciò a pensare per lei un'altra attività, che non la obbligasse a stargli accanto, ma in cui avrebbe potuto vederla almeno ogni tanto. Fu così che si rese conto che l'amava veramente e che la desiderava mnoltissimo. S'erra dunque messo in un vicolo cieco. Ma dopo la lunga assenza, che non tentò neppure di giustificare, Marianna si presentò sorridente nell'ufficio di Zenone. "Eccomi qui" disse. "Non ti aspettavo più. Avevo perduto ogni speranza." "Elpis teleutàia zeà. Così definiscono dappertutto la speranza." "È vero. Allora, c'è qualcosa che mi vuoi dire?" Marianna lo abbracciò. Nella sua gioia Zenone però avvertiva un disagio insinuante e viscoso. Quando aveva sposato Dora le aveva promesso fedeltà, e ora quel giuramento veniva strappato come un pezzo di carta inutile e buttato tra i rifiuti. Marianna invece non provava nulla del genere. Aveva in mente piuttosto i patriarchi della Bibbia, che si univano a una giovane schiava quando la moglie era sterile, perchè si vedeva inserita nell'ambito di una situazione naturale e sacrale, che tendeva a un raggiungimento felice. Non passarono molti mesi che la donna restò in cinta, e subito lo spirito di Zenone generò un'altra serie di ansie sottili. Ebbe più colloqui con Marianna, proponendole nuove sistemazioni, per rimuovere ogni possibilità che la gravidanza fosse danneggiata dal lavoro e dagli spostamenti. Marianna sulle prime non voleva, perchè le sembrava che accogliere le offerte di Zenone significasse davvero gettare un'ombra di natura economica su tutta la vicenda. Poi finì per accettare sia il mensile che l'abitazione in regalo, da lui insistentemente offerti.

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