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Richard Gere, il fascino della seconda giovinezza

Richard Gere in Hachiko

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È raro che un attore di cinema, specie se americano a sessant'anni si tenga i suoi capelli bianchi, senza perdere comunque un briciolo del suo carisma. È quello che è capitato a Richard Gere nel corso di una carriera di cui ha mantenuto fino ad oggi lo smalto, anzi via via accrescendolo.   Da critico, avevo cominciato a considerarlo degno di attenzione sin quasi dai suoi esordi, comunque molto giovane, con registi, a sostenerlo, tipo Richard Brooks, Terence Malick, John Schlesinger. Poi, a confermarne le doti, con una fama ad ogni film più ampia, arrivarono «American Gigolo», di Schrader, «Ufficiale e gentiluomo» di Hackford, «Cotton Club» di Coppola, coronati da un doppio incontro prima con Kim Basinger («Nessuna pietà»; «Analisi finale») poi con Julia Roberts («Pretty Woman»; «Se scappi ti sposo») e da un fortunato confronto in Giappone con Kurosawa («Rapsodia d'agosto»). Da quest'ultima tappa, pronubo l'Oriente, molti mutamenti, soprattutto psicologici. La conversione al buddismo, intanto, poi la partecipazione attiva alla lotta contro l'AIDS, superando in impegno molti suoi colleghi. Senza però, con questo, diminuire i suoi fondamentali impegni nel cinema, anzi, moltiplicandoli a tal segno che proprio in questi giorni, a Roma, si possono vedere addirittura due film da lui interpretati «Amelia» e «Hachiko».   Il secondo, di recente, a ottobre, me l'ha fatto incontrare di persona. Era stato selezionato al Festival di Roma e a me toccava riceverlo. Lungo le transenne una folla plaudente, sul tappeto rosso lui e un cane, pronti entrambi a fare la passerella perchè così il cerimoniale prevedeva. Più di mezzora, prima che, trattenuto dalla gente, arrivasse fino a me. Subito con un sorriso immediato, addirittura luminoso: da una vita io porto al collo delle sciarpe bianche, lui vedendola, dopo il sorriso, la domanda. «Dono del Dalai Lama?». Al mio chiarimento («non è un rito, è un'abitudine»), solo un po' smorzato, poi insieme, ai nostri posti per il film, accolto da molti applausi, ma salutato anche da molte lacrime per i risvolti commoventi della trama.   Dopo, al momento di congedarmi, ho ritenuto giusto citargli quel fiume di lacrime da cui la proiezione era stata accompagnata. «Una buona cosa - rispose - molto più del riso il pianto fa bene all'animo». Una sua massima o del suo venerato Dalai Lama?  

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