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Quando il grande rock era una ragione di vita

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C'è stato un tempo in cui la musica ha assunto le sembianze di un sogno generazionale. Non si trattava solo di apprezzare dei suoni, ma di costruirvi attorno un rituale di conoscenza, decodificando le invenzioni degli artisti come una messaggistica dello spirito, come un codice di appartenenza a un ideale non perfettamente identificato, ma di certo potente come - dagli anni Novanta in poi - non sarebbe stato null'altro. Chi era un teenager intorno al 1970 fatica a far comprendere agli adolescenti di oggi di quale sostanza immateriale ma irresistibile fosse costituita la sparsa «militanza» per la passione rock, che solo trasversalmente coincideva con quella politica, così dirompente e sanguinosa in quella stagione di piombo. Il rock era un biglietto per viaggi spesso immaginari verso gli approdi del sogno (quasi sempre l'America, l'estrema linea di confine dell'Eldorado costituita dalle spiagge californiane); era un varco per conoscere mondi fantastici abitati da quegli idoli che facevano capolino dalle copertine dei long-playing (oggetti d'arte oggi atomizzati dalla "virtualità" delle canzoni comprate su internet e ascoltate sugli I-Pod), a volte da riviste sfogliate come sacre scritture, e quasi mai visti in concerto, perché quelli erano gli anni cupi dell'embargo alle tournée internazionali, per via dell'utopia (violenta) della musica gratis, degli scontri con la polizia ai palasport per le "autoriduzioni" sui biglietti. Un tempo irripetibile, che necessitava di uno scavo nella memoria perché questi tesori della "meglio gioventù" non andassero perduti. All'operazione archeo-rock ha provveduto un testimone privilegiato dell'epoca, quel Carlo Massarini che negli anni Settanta fu una delle voci indimenticabili di trasmissioni di culto come "Popoff" o "Radiodue 21.29", dove si presentavano dischi leggendari, ma che pochi tra gli ascoltatori già conoscevano: Springsteen, Eagles, Joni Mitchell., Jackson Browne; Crosby, Stills, Nash & Young, Cat Stevens, Leonard Cohen. E poi il reggae di Bob Marley, ma anche i nostri cantautori emergenti: Venditti, Bennato, Finardi o mitici gruppi "progressive-rock" come il Banco del Mutuo Soccorso o la Premiata Forneria Marconi, fatalmente accostati ai modelli di riferimento d'Oltremanica, i Genesis o i King Crimson. Leggende, appunto. All'inizio del decennio successivo Carlo approdò in tv, di biancovestito, per raccontare della novità epocale della videomusica, dei primi clip che avrebbero cambiato radicalmente le strategie del mercato e della creatività artistica, tra la furia del punk, la genialità della new wave e il modernismo dell'elettropop. Quella trasmissione così dirompente e abbagliante rivoluzionava il modo di fare televisione per i giovani. Si chiamava "Mr. Fantasy", mutuava il titolo da un pezzo dei Traffic, e nell'immaginario collettivo degli ultraquarantenni di oggi il Signor Fantasia è rimasto Massarini. Che con questo quasi omonimo volume ("Dear Mr.Fantasy", Rizzoli, 49 euro) offre, come dice il sottotitolo, un "foto-racconto di un'epoca musicale in cui tutto era possibile", quella fra il 1969 e il 1982, gli anni il cui l'autore interpretò al meglio il ruolo di giornalista e fotografo rock: un'avventura scandita in circa 500 immagini di più di cento rockstar di quel periodo, e attraverso una narrazione dal tocco autobiografico, a tratti commosso, con il pedale dell'emozione spinto senza retorica, ma con la consapevolezza di aver partecipato a un epos nel quale convergevano creatività, rischio personale, passione, esaltazione, notti trascorse a consumarsi sui solchi del vinile o studiando una mappa stradale verso una perduta highway. Che con un po' di immaginazione e senza soldi poteva anche essere la Cassia o la Flaminia. Il senso era nell'itinerario, nell'andare oltre, sognare. La meta, in fondo, non contava.

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