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Già nel 1978 Ferreri non ci credeva più

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«Ciaomaschio», realizzato da Marco Ferreri nel 1978 (uscì nell'aprile di quell'anno), risponde a queste tre caratteristiche e forse anche a qualcosa di più. Gli anni Settanta furono quelli della speranza (prima) e della delusione (poi). Molti ballarono in strada festeggiando il disimpegno degli Stati Uniti dalla guerra del Vietnam, sventolando ridicole bandiere «abbiamo vinto» (chissà cosa gliene importava poi), per riconoscere dopo che in Vietnam avevano vinto solo l'orrore e la miseria. Anni della Guerra Fredda e del terrorismo internazionale. Anni nei quali si dovette cedere al fatto che «fate l'amore non fate la guerra» è un bello slogan, ma non risolve tutto. Ecco, allora, dopo «L'ultima donna», che fece spalancare gli occhi del mondo su quel simpatico regista italiano con una strana barba (Ferreri) e sul suo attore preferito (Gérard Depardieu), arrivò un'opera che, in un modo o nell'altro, tutti aspettavano e che qualcuno doveva girare, appunto «Ciao maschio». È la storia, dura, folle, surreale, di un uomo che preferisce allevare una scimmia piuttosto che una figlia. Depardieu, allora trentenne, divenne un divo. Già la locandina, con il titolo tutto scritto in lettere minuscole, lasciava presagire un'opera controcorrente, (erano anche gli anni della rinascita dei kolossal in stile «Guerre stellari»). «Ciao maschio» è un film intimista, minimalista che parla di quelle crepe piccole ma fatali che attraversano la vita di tutti noi. «Ciao maschio» è il simbolo stesso della fina dell'era dell'uomo che tratta la donna come una bestia. Prima, fino agli anni Cinquanta, la donna non votava, non possedeva nulla, non parlava. Poi le cose cambiarono e la figura maschile, di fronte all'emancipazione femminile, entrò in crisi. E di quella crisi «Ciao maschio» divenne il simbolo.

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