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La tragedia dei moriscos

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Nellasua seconda vita l'avvocato di Barcellona Ildefonso Falcones, 50 anni, è uno scrittore globetrotter. In una manciata di giorni è passato da Miami a Milano e poi un salto a Roma dove lo incontriamo, mentre si rifocilla davanti a un piatto di caprese. Sta promuovendo la sua ultima fatica letteraria «La mano di Fatima» (Ed. Longanesi) destinata a grandi fasti come la precedente «La cattedrale del mare». Ancora una volta si tratta di un romanzo storico infinito e sterminato (quasi mille pagine) ambientato al tempo della cacciata dei moriscos nella Spagna del XVI secolo, i musulmani convertiti a forza al Cristianesimo e poi espulsi da una patria che abitavano da 800 anni. Il protagonista è Hernando, pelle scura e occhi azzurri. Come Giano bifronte racchiude in sè due anime, culture e religioni: nato da una donna musulmana stuprata da un prete cattolico. Non è un personaggio a tutto tondo, piuttosto un eroe moderno tormentato dalla sua doppia identità e alla perenne ricerca di equilibrio. Come in un grande affresco manierista la realtà è fatta di squarci di luce e da larghe pennallate d'ombra: violenze, atti di ferocia, sangue ma anche nobili sentimenti, amicizie, amori.. Una fiction di grande attrattiva che ha incantato gli spagnoli: 500.000 copie vendute in un mese. La cacciata dei moriscos è un fatto storico poco conosciuto, forse rimosso dagli spagnoli. Gli spagnoli non ci fanno una bella figura. Come hanno reagito i suoi connazionali? «Naturalmente non hanno sensi di colpa. Sono eventi che risalgono a 400 anni fa e riguardano una minoranza di fondamentalisti religiosi cristiani. Mi ha fatto piacere la mozione alla Camera del partito di maggioranza della Rosa in cui chiede al governo di riconoscere istituzionalmente l'ingiustizia che hanno subito i moriscos. Una sorta di pubblica ammenda verso i loro discendenti come fu fatta già 17 anni fa con i cefarditi eredi degli ebrei cacciati nel 1492». Perché ha scritto un libro così lungo? Il romanzo storico necessita di molte pagine? «In un certo senso sì. C'è un intreccio di fiction inserito in un contesto storico, i cui eventi narrati devono essere reali. Per me, comunque, la parte più importante resta quella narrativa e affabulatoria. E visto che i fatti raccontati si svolgono in un preciso contesto storico lontano nel tempo, bisogna spiegare le ambientazioni, i costumi, le usanze ecc. Insomma tutti passaggi in più che in un romanzo contemporaneo non sono necessari. Effettivamente quando sono arrivato a pagina mille mi sono chiesto se avessi scritto troppo. Però anche l'ultimo romanzo storico di Ken Follet "Mondo senza fine" è sterminato. Ai lettori spagnoli piacciono i romanzoni». Che messaggio con questo libro ha voluto comunicare ai suoi tanti lettori? «Non sono io foriero di messaggi, sono soltanto uno scrittore. Comunque, sì, forse la tolleranza religiosa, la convivenza pacifica. E se è servito a far conoscere meglio la tragica vicenda storica dei moriscos è più che sufficiente. Perché l'espulsione degli ebrei è tanto conosciuta, mentre pochi sanno che si fece lo stesso con i maomettani, i quali vivevano in Spagna da otto secoli». Come si è preparato per quest'impresa? «Ho letto più di duecento libri. Testi religiosi, cronache dell'epoca tutte scritte da cristiani. Un punto di vista di parte che andava interpretata per avere una visione obiettiva degli eventi. Fortunatamente il XVI secolo è quello del ciclo de oro della letteratura spagnola e per avere notizie in più sugli usi e costumi dell'epoca ho potuto consultare testi eccelsi. A cominciare da Cervantes che andò Algeri: proprio da lui ho ripreso la descrizione degli abiti dei giannizzeri».

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