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La perifrastica che leva il sonno agli italiani

Belen Rodriguez

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Dice il Vangelo: il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato. Allo stesso modo, l'itala gente deve convincersi che l'informatica, la telematica e i mass media sono stati inventati ed elaborati per servire all'uomo, non viceversa. Invece, sembriamo ormai esserne divenuti schiavi: il che vuol dire che basta un black out, e siamo rovinati. Svegliatevi, italiani. Esistono ancora i libri, i dizionari, le enciclopedie, magari perfino i manuali di grammatica e di sintassi. Non è che alla prima constatazione della vostra ignoranza (ch'è ormai, siamo d'accordo, abissale), la vostra unica risorsa debba esser quella di rifugiarvi nel web, di consultare l'oracolo di Google, di rivolgervi imploranti alla Minerva oscura di Wikipedia o, se proprio siete alla disperazione, di scrivere ai giornali. Che cosa ci tenete nei mobili- bibliotechina dei vostri tinelli, accanto alla gondola made in Hong Kong ma souvenir of Venice e alle foto di famiglia incorniciate? Perché non provar a sistemarci anche qualche Garzantina, e a consultarla ogni tanto? Furoreggia in questi giorni in Tv uno spot nel quale un ormai attempato Christian De Sica - che ci fa sempre più rimpiangere il suo Grande Padre - corteggia una professoressa di scuola media inverosimilmente bella; e lei lo bacchetta rimproverandogli un'ignoranza che a quanto pare fa ormai parte del DNA nazionalpopolare della nostra patria. Ultimamente, la fascinosa prof se n'è uscita con un termine misterioso, che le sue labbra stupende pronunziano con crudele noncuranza: "Perifrastica". E chedè? Un nuovo materiale sintetico? Un attrezzo ginnico? Un altro modo per indicare le escort? La periferia di Frascati? Una malattia infantile? Un piatto regionale marchigiano? Pare che blogs e redazioni dei quotidiani siano stati presi d'assalto da gente ignorante sì, ma finalmente conscia della sua ignoranza e assetata di sapere. Che sarà mai la perifrastica? Ohimè, o italici analfabeti (magari "di ritorno"), trattasi di materia di studio della scuola media inferiore: roba che dovrebbe saperla un ragazzino di dodici anni. Il termine "Perifrastica" deriva dal verbo greco classico perifràzomai, "pensare attentamente", ma anche "chiudere con un recinto che giri attorno a qualcosa". Siamo quindi nello stesso campo semantico della "Perifrasi", espressione costituita da un insieme di parole che sostituisce un unico termine che sarebbe più proprio e diretto: insomma una circonlocuzione, un "giro di parole". Se per dire che ho mangiato polenta e baccalà affermo che mi sono stati serviti "pesce veloce del Baltico e purè di mais", ho costruito una perifrasi. Dalla perifrasi deriva appunto la perifrastica, complessa figura grammaticale che però, essendo finalizzata alla costruzione del discorso, sfocia nella sintassi e addirittura nella stilistica. La perifrastica riguarda la lingua latina e si distingue in "attiva" e "passiva". Spieghiamolo, per i più attenti ed esigenti, in termini tecnici. Nella grammatica latina chiamasi coniugazione perifrastica attiva un costrutto finalizzato a rendere un concetto in modo elegante e vigoroso al tempo stesso. Esso è costituito da un participio futuro accompagnato dal verbo ausiliare sum ("essere"). Tanto il participio quanto il verbo ausiliare concordano con il soggetto: il primo, in quanto aggettivo verbale, deve concordare in genere, numero e caso; il secondo in persona e numero: Per esempio: Si iturus est, eat ("Se sta per andare, che vada"). La coniugazione perifrastica passiva esprime la necessità inderogabile di compiere un'azione: essa è composta dal gerundivo e dal verbo sum. Il gerundivo è declinabile in tutti i generi, numeri e casi; il verbo è coniugabile nei modi, tempi e persone richiesti dal contesto. Esempio: Nobis vincendum est (letteralmente: "Noi dobbiamo vincere"). Questo secondo esempio, è fatidico. Tutti gli scolaretti-studentelli balilla che avevano tra gli undici e i tredici anni fra 1940 e 1943 se lo ricorderanno ancora benissimo, perché faceva continua mostra di sé sulle lavagne e veniva trascritto obbligatoriamente nei loro quaderni: è la traduzione latina solennemente e romanamente corretta del "Vincere bisogna!", esclamazione che Giosuè Carducci, nella Canzone di Legnano, mette sulle labbra del leggendario Alberto da Giussano e che il Duce riciclò come variante del "Vincere!" trionfalmente conclusivo del celebre ma ohimè sfortunato discorso del 10 giugno 1940, quello della dichiarazione di guerra. Anche i dialetti padani sono neolatini, ancorché gravidi di reminiscenze celtogermaniche. I lumbard che in questi giorni gremiscono le sale cinematografiche per assistere al bugiardo e pessimo «Barbarossa», dovrebbero sapere almeno che il loro eroe Alberto - uno sconosciuto il cui nome ricorre una volta sola in un documento del XII secolo, e che come figura pseudostorica fu inventato nel primo Trecento dal cronista domenicano Galvano Fiamma - fu costretto nell'Ottocento da un poeta toscano arcifautore dell'unità d'Italia a pronunziare una frase che, detta in latino, sarebbe stata una perifrastica perfetta. Certo, non si finisce mai d'imparare.  

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