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La memoria - lo sapeva bene Proust con le sue "madeleine"- pesca nel passato come le pare.

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Ioho ancora impresso negli occhi un omino che mi colpì al cuore da bimbo in un film indimenticabile. È il Renato Rascel del "Cappotto" diretto da Alberto Lattuada. La storia di un impiegatuccio mite, timido, solitario che riesce a mettere da parte un po' di soldi e si compra un cappotto nuovo. Ma glielo rubano e lui muore di crepacuore. Il fantasma, però, "si vendica". È carico di rancore e vagando di notte per le strade di una Pavia nebbiosa aggredisce i passanti, rivendicando il proprio cappotto. Ce l'ha con "tutti", perché è come se tutti fossero responsabili della violenza inflitta a lui, buono, povero e inerme, dunque vittima designata della prepotenza e dell'indifferenza umane. Qualche anno dopo, "immersione totale" nei libri e scoperta della grande letteratura russa. Dunque del "Cappotto" originario, il racconto di Nikolaj Vasil'evic Gogol che aveva ispirato il film, con tanto di trasposizione - perfettamente riuscita - dalla Pietroburgo del primo Ottocento alla Pavia degli anni Trenta. Bene, mi giunse una conferma "alta" di quel che aveva "perturbato e commosso" i miei sentimenti "bambini". Una grande, dolente lezione di pietà. Un sapore amaro, che si mescolava all'ironia, alla caricatura, alla deformazione grottesca. Certo, tutto nasceva da un occhio attento e sapiente che aveva saputo guardare "quella" Russia e scavarvi dentro con polemica complicità: ma una poetica ben centrata è ovviamente universale. E allora è chiaro che il Gogol del "Cappotto", come quello dell'"Ispettore", con la cittadina di provincia in agitazione per l'arrivo di un alto funzionario governativo in incognito; come quello del "Naso", con l'assessore collegiale Kovalëv che dopo una discussione col barbiere si risveglia senza naso, salvo poi ritrovare la propria importante protuberanza a passeggio, nell'alta uniforme del Consiglio di Stato, tutto compreso nel suo ruolo, e dunque con l'arroganza tipica del "lei non sa chi sono io"; come quello delle "Anime morte" con la vicenda del piccolo proprietario Cicicov che utilizza lunghi elenchi di servi della gleba morti dopo l'ultimo censimento, dunque ancora vivi sulla carta, e grazie al cui "possesso" può ottenere dal governo la concessione di vasti appezzamenti di terra: è chiaro che il Gogol che racconta questa ed altre storie iperrealistiche e paradossali, scritte nel breve arco della sua esistenza (morì nel 1852, a quarantatré anni), "è di noi che parla", insomma del nostro "umano, troppo umano" che confina col "disumano". E cioè con il potere prepotente, con i nuovi ricchi che sfoggiano alterigia, con le caste e i "fuori casta", con i burocrati, i politici e i loro "parassiti", con la corruzione e l'ambizione, la violenza degli impuniti e la sofferenza degli indifesi. Nulla di nuovo sotto l'algido sole di Pietroburgo e quello caldo di Roma. Ma - e Gogol ne era cosciente - se la redenzione è una aspettativa edenica e nessuna rivalsa può compensare gli sfregi che ti bruciano la faccia e l'anima, tuttavia la letteratura è una forma di difesa. Se non altro perché svela e illumina la realtà, grazie all'ironia, al sarcasmo, alla dissacrante "vis polemica". Da qui all'eternità? E perché no? Se il disincanto ci impedisce di annunciare il mondo nuovo, facciamo almeno i conti con una eternità "terra terra". E questo già ci vale "un po' di cielo".

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