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La dignità è questione di vita e di morte

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Beneha fatto perciò Paola Binetti ad iniziare il suo interessante volume «La vita è uguale per tutti» (Mondadori, pag. 132) dai casi concreti che hanno scosso i palazzi della politica oltre che l'opinione pubblica: quelli di Terri Schiavo, di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, appunto. Questo risvegliarsi dell'interesse solamente nelle fasi di emergenza per dei casi drammatici dipende dal fatto che permane nel nostro Paese un vuoto legislativo che è la conferma dell'assenza di quella riflessione etico-culturale che dovrebbe essere al fondamento di una disciplina come la bioetica, che sola è in grado di inquadrare il progresso scientifico e tecnologico in una visione etica dell'agire umano. E anche il dibattito sul testamento biologico sembra non affrontare le questioni di fondo. Si discute se siano atti medici e come tali possono essere sospesi, o atti di sostentamento vitale. Il libro non si ferma qui. La vita secondo gli schemi della contemporaneità non può non essere che quella che ci viene presentata dai mezzi di comunicazione: bella, senza problemi, tutta rose e fiori, con belle donne e uomini superman. Per questo si propone a volte la sua fine quando non appare secondo questi schemi, facendo appello all'autonomia assoluta dell'uomo, fino all'esaltazione del suicidio e dell'eutanasia come forme paradossali di affermazione di sé ed insieme di distruzione del proprio io. Al di là delle convinzioni religiose personali, infatti, non v'è dubbio che la vita debba terminare così come iniziata: naturalmente. Non può l'uomo impadronirsene. Non sta a lui decretarne la fine, per nessun motivo. Essa è un valore in sé, che la rende indipendente dalla sua qualità. Per questo lo Stato deve tutelarla sempre e deve incrementare sempre più la ricerca nella terapia del dolore, nelle cure palliative con l'obiettivo di ridurre al massimo le sofferenze di chi è al termine della propria esistenza.

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