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"Il cinema, che noia"

Michele Placido

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Un teatro civile, impegnato, vicino a chi soffre e in grado di denunciare i mali della società passata e presente è il nuovo obiettivo di Michele Placido, sempre più annoiato dal cinema e interessato profondamente alle possibilità espressive del palcoscenico. Dopo l'aiuto concreto ai ragazzi calabresi di San Luca, il suo ultimo progetto, infatti, è lo spettacolo «I fatti di Fontamara» che mira a reperire fondi da devolvere alle popolazioni abruzzesi investite dal terremoto, rendendo omaggio a Ignazio Silone con una rappresentazione ispirata al suo celebre romanzo «Fontamara», prevista a Pescina in prima nazionale il 17 luglio e poi replicata il 18 a Tossicia, il 19 a Pescasseroli, dal 20 al 23 a L'Aquila e il 6 agosto a Gioia dei Marsi. Il lavoro coinvolge undici attori, diplomati all'Accademia Nazionale «Silvio d'Amico» di Roma, che Placido vorrebbe trasformare in una compagnia stabile, e tre musicisti abruzzesi in un racconto che attinge alle esperienze autentiche della gente di ieri per meglio comprendere e stimolare le persone di oggi. Cosa può comunicare Silone ai suoi compaesani e al pubblico odierno? «Nel suo libro ha raccolto le vicende di Fontamara, un villaggio meridionale, interno, lontano e un po' abbandonato, così come venivano riferite dai veri protagonisti. I personaggi si raccontano storie poi divenute memorabili. Tutto ruota intorno al corso d'acqua deviato da un signorotto di campagna che determina la rivolta dei "poveri cafoni", cioè di uomini fuori dalle logiche, abituati solo a faticare senza saper imbrogliare. Mi piace porre agli spettatori contemporanei questo interrogativo: "Ci sarà un Berardo Viola fra gli abruzzesi terremotati, pronto a ribellarsi qualora si ripetano ingiustizie e prevaricazioni politiche o mafiose?". Voglio che il teatro sia occasione di riflessione nei luoghi attraversati da una tragedia attuale che rischia di rivelarsi un'ennesima opportunità di lucro per i potenti e di inganno per le vittime». Si sta indirizzando verso la regia teatrale? «Sono anni che me lo chiedono e credo che sarebbe una strada giusta per me più ancora del cinema, troppo spesso futile, noioso e ripetitivo. Ho diretto Haber anni fa in "Aria di famiglia" e poi basta. Il mio sogno è firmare la regia di "Tre sorelle" di Cechov, mostrando però il mio lavoro con gli attori, sera per sera, come in una prova aperta, esibendo quello che accade prima di uno spettacolo e rendendo pubblica una regia nel suo crearsi. Nel caso de "I fatti di Fontamara", per esempio, desidero che sia protagonista la parola e che gli interpreti sappiano animare le scene di cui si parla. Ho spinto i ragazzi a recuperare le origini dialettali e il linguaggio dell'infanzia e dell'adolescenza perché la dizione studiata in Accademia li ha azzerati uguagliandoli tutti. Reciteranno in uno spazio nudo nelle località terremotate: la scenografia non è necessaria. Brook ce l'ha insegnato!».  È padre di cinque figli. Come vede il futuro dei giovani? «Mi impongo di aiutarli con ogni mezzo ed è per questo che sto tentando di far nascere una nuova compagnia stabile, che a Roma ancora non esiste, grazie all'attività del teatro di Tor Bella Monaca. Spero che sia un invito al'azione per il Ministero! È triste da ammettere, ma l'Italia preclude alle nuove generazioni di emergere e realizzare la propria creatività. All'estero è molto diverso e mi rincresce pensare che espatriare sia l'unica soluzione praticabile». Vorrebbe emigrare anche lei? «Per ora no, vedremo».

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