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Michael Jackson è morto Si è spento il re del pop

Michael Jackson

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{{IMG_SX}}E' rimasto leggenda fino all'ultimo, con l'America e il mondo che d'un tratto si sono fermati ad ascoltare non la sua voce, ma un battito residuo di quel cuore che forse aveva già perso per sempre il ritmo mentre l'ambulanza lo trasportava all'ospedale dell'Ucla di Los Angeles. Per ore i media si sono fermati sulla soglia della morte di Re Michael, con quella tipica resistenza psicologica nei confronti delle icone pop, quando arriva "quella" notizia. Chi ne annunciava il decesso, chi si trincerava dietro un prudente «è in coma», in un balletto ben più macabro di quello che nel 1983 lo aveva consacrato con "Thriller", l'album più venduto nella storia, 105 milioni di copie in un totale di 750 milioni vendute nell'arco di una carriera durata 45 anni, e molto meno controversa della vita privata. Poi, man mano che i fans si riunivano davanti al nosocomio, l'attesa si trasformava in una veglia. Da troppe parti arrivava la conferma della fine. Arresto cardiaco.   L'uscita di scena di Jackson è degna dei misteri che alimentano sempre il post-mortem dei grandi nomi del pop e del rock. Più di trent'anni dopo, c'è ancora chi non si rassegna alla scomparsa di Presley, e periodicamente lo avvista ai quattro punti cardinali. E quante analogie nell'entrata nel cono d'ombra fra Elvis e lo stesso Michael, che aveva impalmato (in un improbabile primo matrimonio) Lisa Marie, la figlia dell'imperatore bianco del rock. Nulla, nella sua esistenza, è passato sottotraccia. L'enfant prodige costretto da un padre padrone ad esibirsi sin da piccolissimo con i fratelli nei Jackson Five, prima di diventare l'artista solista di maggior successo della storia della musica dei nostri tempi era diventato a cinquant'anni uno zombie, un alieno sospeso tra follia e solitudine.   Per uno sconcertante paradosso, Michael ha sempre aspirato a nascondersi, a camuffarsi, a diventare qualcun altro. Ma ogni sua mossa lo esponeva impietosamente: la stampa e l'opinione pubblica Usa lo vivisezionavano più di quel bisturi che era servito per fargli sbiancare la pelle, o farsi cambiare i connotati, lui così idolatrato, e che non riusciva ad accettare il proprio colore e quel fisico che - almeno sul palco, mentre cantava e ballava - aveva fatto la sua fortuna. Le scelte di Michael erano spesso segrete provocazioni: aveva "osato" comprare i diritti per le canzoni dei Beatles, salvo poi doverli cedere all'inizio di quel declino finanziario che un anno fa lo aveva costretto a vendere anche la principesca residenza di Neverland, quella dove sognava di restare per sempre Peter Pan, ma dove i bambini attorno a lui lo denunciavano di comportamenti tutt'altro che innocenti e giocosi. Ha conosciuto l'onta dell'accusa di pedofilia, dei flash che lo accompagnavano non sul palco, ma verso l'ingresso di un tribunale.   È stato immortalato mentre da un balcone in albergo tratteneva sospeso nel vuoto il figlioletto Michael Jr., avuto dalla seconda moglie Debbie Rowe. Lo hanno considerato un pazzo, un perverso, una creatura più lunare di quel passo "moonwalk" che aveva cambiato lo stile della danza black. Ma nessuno ne ha mai messo in discussione l'immenso, rivoluzionario talento di artista, celato in quel corpo infelice, così tormentato negli ultimi tempi da malattie, dalle foto di lui in carrozzella, o con un orecchio devastato dalle operazioni, un braccio che spuntava mostruoso dal costume di scena. Il 5 marzo scorso, la sua ultima apparizione, a Londra, dove annunciava i concerti del grande ritorno, 12 anni dopo la precedente tournée. Disse solo: «Questa è l'ultima occasione per vedermi in scena. È il sipario». E poi: «Mi vedrete a luglio». Ma il suo riflettore si stava spegnendo già su quell'ultima parola.  

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