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«Quella volta che intervistai Marilyn»

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Lamattina dopo mi confidò il telefono segreto, e il nome della strada dove Marilyn s'era nascosta dopo aver piantato in asso Hollywood. Ricordo ancora l'indirizzo: Sutton Place 2, Manhattan. Dal fioraio più chic della Quinta Strada inviai a Marilyn due dozzine di rose scarlatte. E siccome le rose erano il suo fiore prediletto, mi chiamò nel tardo pomeriggio. «Venga domani», disse, con quella voce esile e sexy che sappiamo: «Ma mi raccomando, niente domande indiscrete, niente faccende di cuore». Mi sembra di rivederla, in quel piccolo flat arredato alla meglio, con un pianoforte a muro dalla vernice un poco scrostata. Ma come apparve nella living-room, sia pure malvestita e traballante sui tacchi alti, fu come se avessero acceso il parco-lampade di un set. Portava un golf di lana verdognola abbottonato alla gola, ma lasciava libero il vertiginoso decolleté di panna. Così cominciai a far domande vaghe, con voce instabile; alle quali lei rispondeva in modo dolce e compassionevole. A un certo punto mi confidò che aveva scritto delle poesie. «Posso leggerne una, molto breve?», domandò. Le risposi: «Con quella voce può mettere in rima anche l'elenco del telefono». Solo alla fine osai pronunciare il nome di Miller. «Che si aspetta da lui?», domandai. E Marilyn, con candore: «È una persona così colta, spero mi trasmetta la malattia».

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