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Pagliacci all'Opera

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LorenzoTozzi È un must nella tempestosa stagione dell'Opera. In una situazione non ancora pienamente pacificata a mettere tutti d'accordo è l'edizione principe di un classico del verismo musicale come «I Pagliacci» di Zeffirelli, nati proprio sul palcoscenico romano nel lontano 1992. Un allestimento che conserva intatta la fragranza della messinscena, per la quale il regista fiorentino ha scelto i vicoli odierni di un pittoresco basso napoletano. A vivificarlo un' umanità a dir poco colorita, con macchiette, piccoli quadretti e tutto il campionario della clownerie felliniana. Già, perché Zeffirelli alla Commedia dell'arte (la carretta dei comici tra i quali si svolge il fatto di sangue) preferisce un baraccone circense con pagliacci, giocolieri, mangiatori di fuoco, acrobati e affini. Le masse in scena brulicano come in un quadro di Bosch, in una ridda polifonica di movimenti che sembrano quasi riassorbire la partitura in un labirinto di azioni multiple. La realizzazione musicale era saldamente in mano all'esperto Gelmetti, capace di dare spessore ai bagliori sinistri di Leoncavallo. Ma c'erano anche solisti d'eccezione come la convincente Papatanasiu nella determinata Nedda, il generoso Stuart Neill in un delirante Canio e infine Seng Hyung Ko nei tratti di un credibile Tonio. La serata era iniziata con aperitivi mascagnani (la Sinfonia delle Maschere, il Sogno di Ratcliff e soprattutto il lirico Intermezzo della Cavalleria). Alla fine salve di applausi in modo particolare al grande regista. Poco felice tuttavia l'idea di un intervallo in mezzo al dramma.

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