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Grande Torino, relitto di un sogno

Il trimotore Fiat tra le macerie della basilica si Superga

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Alle 17.02, dal bollettino meteorologico: nebulosità intensa, raffiche di pioggia, visibilità scarsa, nubi cinquecento metri. Sono gli ultimi messaggi registrati all'aeroporto di Caselle. Due minuti dopo, alle 17.05 del 4 maggio, lo schianto sul bastione della basilica settecentesca firmata da Filippo Iuvarra. Con quella caduta sulla collina di Superga, due passi dal capoluogo piemontese, se ne andò un pezzo d'Italia, con un gemito collettivo che attraversò l'intera nazione. Perché il Torino, quegli undici giocatori, erano molto più di una squadra di calcio. Era una necessità biologica per gente uscita mortificata e cenciosa dall'avventura bellica, una visione romantica per quanti ritenevano giusto affidare agli esiti di un gioco, alle ruote di una bicicletta o ai lanci di un discobolo una consolazione, un recupero di dignità, il desiderio di aprire il futuro a una vita migliore. Morirono in trentuno, reduci da Lisbona, per la partita d'addio di Françisco Ferreira, capitano del Benfica ed amico di Mazzola, quel Mazzola motore ed anima della squadra italiana fondata il 3 dicembre 1906 in una birreria di via Pietro Micca, 231 partite in totale con la maglia granata, 123 reti realizzate, 29 delle quali nel campionato 1946-47, capocannoniere. Trentuno, dirigenti, tecnici, giornalisti, uomini dell'equipaggio. E diciotto giocatori, Valerio Bacigalupo, Aldo Ballarin, Virgilio Maroso, Giuseppe Grezar, Mario Rigamonti, Eusebio Castigliano, Romeo Menti, Ezio Loik, Guglielmo Gabetto, Valentino Mazzola, Franco Ossola, e Danilo Martelli, e l'altro Ballarin, Dino, ed Emile Bongiorni, Rubens Fadini, Roger Grava, Pierino Operto, Julius Schubert. Cinque scudetti conquistati tra il 1943 e il 1949, il primato di sessantacinque punti in quaranta partite nel campionato 1947-48, sedici di vantaggio sul Milan, secondo classificato, un campo, quello di via Filadelfia, inespugnabile. Le ultime quattro partite, dopo la tragedia, giocate tra squadre giovanili come chiusura formale di un campionato praticamente archiviato. Sono passati sessanta anni da quella data. Ma chi visse quel giorno conserva intatta la cicatrice, come una maledizione mai superata, una sillaba sull'altra, un nome sull'altro, come un rosario e un atto di fede. I primi ad accorrere sul luogo del disastro furono un muratore e un sacerdote. Poi, su quella collina, si riversò il cuore della città. E la sofferenza di ciascuno divenne rito collettivo. Toccò all'uomo che negli anni Trenta aveva condotto gli azzurri della Nazionale a folgoranti successi internazionali, due campionati mondiali, 1934 e 1938, e il titolo olimpico nel 1936, all'uomo che d'ognuno dei diciotto era stato padre e che due anni prima ne aveva inseriti dieci nella squadra vittoriosa sull'Ungheria guidata da Ferenc Puskas, riconoscere tra le lamiere bruciate, uno per uno, i giocatori. E fu, con quell'immagine di Vittorio Pozzo piegato sui corpi, strazio nello strazio. Poi, l'impressionante silenzio della discesa delle salme dalle scale di palazzo Madama e del funerale attraverso le strade di una città ammutolita e agghiacciata in una sacralità ancora non violata dal rito pagano e scomposto degli applausi. Quel velo nero sulle bare fu l'ultimo atto del Grande Torino.

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