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L'«Orgoglio industriale» di un'Italia che tiene

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Moda,banche e grand hotel. Era l'immagine dell'Italia «da bere», quella che faceva affidamento su finanza, hi-tech, turismo e genialità di qualche stilista come uniche risorse in grado di garantire ricchezza e futuro al Paese. Era l'epoca dei «servizi» dopo il declino delle fabbriche e dell'«anima meccanica» italiana che aveva accompagnato gli anni del boom economico. Oggi mentre la crisi mondiale scatena paure, provoca licenziamenti di lavoratori e rivolte contro imprenditori e manager, l'Italia «tiene». Resiste il «quarto capitalismo», quell'esercito di 4600 aziende, medie o medio-grandi, all'avanguardia sul piano dell'innovazione, capaci di conquistare la leadership sui mercati internazionali. A scoprire che l'Italia è ancora un grande Paese industriale, il secondo in Europa, è Antonio Calabrò, giornalista attualmente Direttore Affari Istituzionali e Relazioni Esterne della Pirelli SpA nel saggio «Orgoglio industriale. La scommessa italiana contro la crisi globale» (Mondadori, pag.184) Calabrò, finora abbiamo sottovalutato una parte importante della nostra economia? «Più che sottovalutata, si tratta di un'Italia sparita dall'immaginario collettivo che invece è viva, vitale e soprattutto flessibile, perché come ha già fatto, ha affrontato molte trasformazioni per reggere non solo i momenti di crisi ma anche cambiamenti di processi produttivi, di mercati, di consumi, di ridimensionamenti dei grandi poteri economici». Vuole dire che i piccoli imprenditori guardano avanti? «Lo dice la storia ed è nella natura dei nostri imprenditori che hanno sempre avuto una straordinaria capacità di percezione dei cambiamenti e di adattamento che porta a modificare anche i rapporti con il mercato. Tra il 2000 e il 2007 l'industria italiana manufatturiera più del "sistema Paese" ha percepito il cambiamento dei mercati e dei consumi e così ha intrapreso un importante percorso di riorganizzazione, ha innovato processi e prodotti, si è internazionalizzata, si è collocata nelle nicchie a più alto valore aggiunto sui mercati globali. Anche ora sta lavorando molto ed è su questa ricchezza diffusa che dobbiamo fondare la ripresa». Un'inchiesta giornalistica per raccontare di un'industria a misura di cliente, di «multinazionali tascabili» nate e cresciute come progetto di vita di un operaio o di una famiglia intraprendente e diventate motore di competitività. Eppure i giovani preferiscono lavorare nei call center «Perché non conoscono questa realtà, perché si tratta di un comparto sottostimato malgrado sia il cardine di un tessuto produttivo diffuso fatto di piccole aziende spesso finanziariamente solide e aperte al mondo che cambia». Per questo la piccola imprenditoria lamenta spesso la scarsa attenzione delle istituzioni? «I piccoli imprenditori hanno fatto sempre tutto da soli. In alcuni casi si è creato un rapporto virtuoso con gli enti locali grazie alle leggi di alcune regioni come Piemonte, Lombardia, Friuli ed Emilia Romagna, oppure grazie alle sinergie positive tra mondo dell'impresa, istituzioni e università». Insomma, l'ottimismo è lecito? «Siamo un Paese molto competitivo nel micro, poco nel macro. Però, indagando sul mondo industriale e guardandolo anche dall'interno di una grande impresa, ritengo che gli sforzi che l'Italia sta facendo, soprattutto dal punto di vista culturale-produttivo, ci premieranno. L'industria italiana c'è e tiene perché ha cambiato forma, dimensione e stile - conclude Antonio Calabrò - La nostra è un'industria già dentro il cuore della green economy e solo puntando davvero su questa cultura del fare, e fare bene troveremo la strada per uscire dalla crisi che stiamo attraversando».

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