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E Giotto inventò la pittura italiana

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Un'immersione nei valori, nella civiltà, fuori dalla barbarie dei disonesti, dei violenti, della finanza senza scrupoli che ci ha fatto pezzenti. Giotto dal 5 marzo arriva a Roma, al Vittoriano, sotto l'egida di Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia. Non è una mostra-anniversario, di quelle spesso scientificamente carenti, dice il curatore, Alessandro Tomei. Anche se un anniversario gratta gratta c'è, quel 1309 in cui per la prima volta compare ad Assisi, in un documento, il nome di Giotto. Invece, è una mostra che racconta «il più sovrano maestro stato in dipintura», (lo definì così nella Cronica Giovanni Villani) scavando anche in certi dubbi: quanto sia suo nella basilica del Poverello, quale sia stata la tappa più importante della sua formazione, non solo fiorentina. E qui si apre il «capitolo Roma». Maestri visti nella caput mundi - Arnolfo di Cambio, il Pietro Cavallini di Santa Maria in Trastevere, Jacopo Torriti - sono molto più di un'eco negli affreschi di Assisi e della padovana Cappella degli Scrovegni. A Roma resta poco di quanto fece. L'angelo in mosaico della «Navicella degli Apostoli» di San Pietro in Vaticano, il Trittico Stefaneschi, il cardinale committente, la tempera su rame con Pietro e Paolo. Tre delle venti opere di Giotto presenti al Vittoriano. Ma l'esposizione conta altri 130 lavori, che lo squadernano negli influssi che ebbe e diede ad altri pittori, nel «marchio» impresso sulle altre arti: oreficeria, scultura, architettura. E allora, ecco Simone Martini e Pietro Lorenzetti, Giovanni Pisano, Cimabue, Orcagna. Vuole dire questo, la mostra al Vittoriano, che riaccende dopo 70 anni i riflettori su Giotto (l'ultima rassegna nel 1937, agli Uffizi): quel figliolo di contadini vissuto tra il Duecento e il Trecento inventò il lessico italiano dell'arte, come fece Dante in letteratura. Parlò di uomini e donne veri, madonne disperate con il volto solcato di lacrime e rughe, nobiluomini superbi, o spietati, o caritatevoli, torri squadrate di città, prospettiva, corpi fatti di massa, di peso. Andò nelle corti e in tante città d'Italia. A Napoli, a Rimini, a Milano, ultima tappa prima di morire. A Firenze, nel 1337. È sepolto in Santa Croce, nel Pantheon dei nostri grandi. E rivoluzionò non solo la pittura, ma anche l'identità dell'artista. Una presenza carismatica, da superstar. Lo spiega bene Claudio Strinati, in un suo bel libro. Giotto uscì dall'anonimato dei maestri medievali, divenne personaggio pubblico, da tutti conosciuto. Uno famoso. Lo certifica Dante, nella terzina del Purgatorio: «Credette Cimabue nella pittura/ tener lo campo, e or ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura». Ci rappresenta tutti, Giotto. Parla dell'Italia, in un viaggio tra le regioni, dalle Marche al Veneto e all'Umbria. Rappresenta le radici cristiane, la nostra civiltà. E per questo può parlare all'Europa. È il senso delle parole di Bondi.

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