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Totò, il principe avaro tranne che coi facchini

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..».Ribatto subito che non è vero. Intanto perché ho troppo rispetto per la lingua italiana (...) e poi, perché di Totò come attore io ho sempre scritto quasi con entusiasmo. I suoi film sono un'altra cosa, ma pazienza, non si può avere tutto. Mattoli insiste però per venirmi a prendere con la sua auto (...). Mentre guida una «giardinetta» scassata, affronta con un certo imbarazzo un argomento che non si era sentito di trattare al telefono: come rivolgersi a Totò. «Ci tiene, dovresti chiamarlo principe». Ma ci diamo del tu con tutti, lo interrompo, il lei passi, è più anziano, ma principe dimmi tu cosa c'entra? E poi, insinuo, questo titolo non è così certo come dicono. «Ah no - esclama Mattoli - ha già ottenuto tre sentenze in tribunale che lo autorizzano a fregiarsi di una dozzina di titoli, tra cui persino quello di Altezza Imperiale. (...). Arrivammo al 42 di via Monti Parioli (...). Suoniamo. Mi aspettavo l'allegra marionetta che avevo visto al cinema (...). Un signore quieto e distinto, invece (...). Recita da principe, penso. Ma basta il gesto con cui ci fa strada verso il soggiorno, il modo in cui, con la destra, ci indica di fronte a lui le poltrone che l'idea della finzione si dissolve. «Contento finalmente di incontrarla, principe», mi sento dire. Risposte altrettanto posate e composte. L'accento napoletano è scoperto, ma non è diverso da quello di tanti patrizi con corona chiusa e stemmi datati Due Sicilie. Forse è solo un po' più sonoro, nella conversazione però non si affaccia neanche un termine dialettale e semmai, della marionetta che ammiro sullo schermo, affiorano ogni tanto solo delle luci negli occhi, maliziose anche quando i temi affrontati sono seri. Il più serio, appunto, la coscienza che a un critico non sia facile accettare i film che lui interpreta, anche quando, come me, apprezza poi chi li interpreta. Allora comunque non lo disse, ma molti anni dopo in un'intervista ammise: «Non ho fatto niente. Sarei potuto diventare un grande attore e invece, fra i cento e più film che ho girato, di degni non ce ne sono più di cinque».(...) Quel vulcano, riuscito finalmente un giorno a recitare anche in un film d'autore, con Rossellini, Lattuada, Pasolini, me lo sono ritrovato poi una quindicina di anni dopo quasi spento del tutto, in una saletta della Titanus dove aveva voluto che vedessimo insieme "La mandragola" di Lattuada in cui aveva interpretato la parte di Frà Timoteo. «Un Machiavelli», aveva detto al telefono con fierezza. Insieme, però, in quella saletta, solo per modo di dire. Io, con Franca Faldini e altri amici, sulle poltrone, lui, lontano da noi, su una sedia addirittura sotto lo schermo, per cercare di vincere quell'oscurità che era piovuta sui suoi occhi dal '57 in seguito ad una retinite emorragica. Rasserenato solo un po', dopo la proiezione, dai nostri applausi (...). La prima volta, invece, a via Monti Parioli, dopo i modi da principe, aveva voluto regalarmi una delle sue più colorate piroette. Compassato e perfino troppo cortese, aveva tenuto ad accompagnarmi giù all'ingresso, illuminato da molti lampadari condominiali. «Tutte queste luci - si era messo a gridare al portiere - ma voi proprio non sapete dove sta l'economia». Aggiungendo (...): «E io pago...!». La commedia della sua avarizia. Che smentiva poi nei fatti quando, in stazione, ai facchini dava per ogni valigia diecimila lire. Ai suoi funerali, difatti, sulla corona più bella, ho visto scritto «I facchini di Termini».

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