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Nel 1806, quando inizia a scrivere il carme «Dei Sepolcri», ...

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Lui, non c'è che dire, fa di tutto perché la sua aureola di fascinoso sovversivo splenda ogni giorno di più, tra un grande infuriare di tempeste politiche e sentimentali. Infatti è un patriota doppiamente privo di patria: mai più rivedrà le «amate sponde» della sua Zacinto - una delle isole ionie, già possedimento della Repubblica Veneta, dove è nato da madre greca - ed è costretto a starsene lontano da Venezia, la città di origine del padre, ceduta da Napoleone all'Austria col trattato di Campoformio. Quanto a sentimenti ardenti e a sensi ribollenti, Ugo è un farfallone amoroso, anzi un fanatico dell'innamoramento: se una donna gli piace, deve essere sua, e non ha alcuna importanza che sia sposata a un caro amico, promessa sposa, timida «figlia di famiglia» travolta dalla sua maschia irruenza. Fa soffrire e soffre, bello (a chi piace) e dannato. Che poeta, però! I «Sonetti» brillano come gemme. E che gran cuore italico! «Le ultime lettere di Jacopo Ortis» sono il breviario di tutti gli indomiti spiriti romantici che sognano la poesia e la bellezza, il riscatto e la gloria contro la miseria dei tempi e l'oblìo della tradizione patria e delle civiche virtù. Con tutta l'enfasi del caso, ma animato da una schietta generosità, Ugo Foscolo coltiva la sua immagine di magnanimo d'alto rango ma anche di spirito polemico e rissoso. In ogni occasione. E l'editto di Saint-Cloud ne offre di materia incandescente per conversazioni e scontri. Introdotto in Italia da Bonaparte nel 1806, vieta la sepoltura nelle chiese in nome di ragioni igieniche e sociali, e stabilisce che i cimiteri siano collocati fuori dalle mura cittadine. Uno shock per i tradizionalisti. Isabella Teotochi Albrizzi, che ha «iniziato» all'amore il Foscolo diciassettenne e ora ne segue la crescita artistica, fieramente osteggia il provvedimento, col sostegno di un caro amico di Ugo, il poeta Ippolito Pindemonte, che ha cominciato a scrivere un poema in ottave, intitolato «I Cimiteri», a difesa del culto cristiano dei morti. Foscolo, miscredente e materialista (tra l'altro di recente ha letto Lucrezio, accogliendone la tesi del continuo processo di aggregazione e disgregazione di atomi che investe la vita degli uomini e la compone, scompone e trasforma, al pari di tutti gli altri elementi naturali), recita la parte dello scettico, ma poi si accorge che non gli basta e se ne pente. Sì, dice, il sepolcro è solo illusione, si muore «per sempre» e non c'è un'altra vita che compensi tutto ciò che abbiamo perduto. E tuttavia, che bella illusione! Se la nostra vita è stata nobile e generosa, sopravviveremo nel ricordo delle persone care. La vera morte, il vero inferno è l'oblio, ed è quel che tocca ai malvagi. Nodo di affetti privati, perché si mantenga intatta una «corrispondenza di amorosi sensi», la tomba ha anche un valore civile. Anzi, è all'origine della civiltà, allorché gli uomini abbandonarono lo stato ferino, e fecero propri i valori della pietà e della solidarietà. Da allora il culto dei morti ha assunto un valore religioso, sacrale, e si è trasmesso da una generazione all'altra, come segno di continuità. Insomma, Foscolo ha chiara coscienza di quel che rappresenti la memoria del passato, dunque degli antenati, ai fini della identità collettiva. L'ininterrotto dialogo tra vivi e morti è tratto distintivo dell'«humanitas», tanto più se il cimitero è davvero «camposanto», non si carica dunque di immagini lugubri, ma è collocato in luoghi aperti e verdeggianti. La vita «continua» se è immersa nella natura, se la natura si apre al culto. E il culto è cultura. Ce lo insegnano le tombe dei grandi che esortano gli animi a imprese eroiche e trasformano in tempio i luoghi in cui sono custodite. Luoghi consacrati: Santa Croce a Firenze, con i sepolcri dei grandi italiani (Machiavelli, Michelangelo, Galilei); la piana di Maratona in Grecia «ove Atene sacrò tombe ai suoi prodi», e cioè ai guerrieri che si batterono contro i Persiani. Lo sguardo del Foscolo abbraccia tempi e spazi diversi; la parola si fa sempre più alata ed eloquente per dirci che il passato non passa se dai sepolcri attingiamo riserve di energie per combattere la mediocrità del presente, valorizzando l'eredità dei magnanimi col nostro esempio ed eternandola attraverso la poesia. Si muore quando siamo dimenticati, si muore quando si dimentica. Vale per i singoli, vale per le comunità. Che trovano forza per il futuro, inchinandosi riverenti di fronte ai sepolcri, archivi di pietra e di marmo, e se sono in grado di celebrare insieme tutti quelli che hanno versato il sangue per la patria. Achille ed Ettore. I vincitori e i vinti. Davvero «vivi» perché ci insegnano a vivere, nonostante la morte, al di là della morte.

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