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Tiberia De Matteis Dalla vulcanica creatività di ...

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Un rapporto stretto, sinergico e magmatico con la scrittura originale condito da un'indomita passione scenica e dalla voluttà di contaminare recitazioni, inserendo nel cast Enrico Brignano come Targa, Serena Autieri per Titania e Giampiero Ingrassia nei panni di Oberon, e arrivando alla sfida di riservarsi il ruolo, tradizionalmente giovanile di Puck, assicurano a questo spettacolo il valore di sintesi magica di un'esperienza teatrale non destinata a conoscere soste. Quali licenze poetiche si è concesso? «Ho scelto un'opera aperta come il "Sogno di una notte di mezza estate" e l'ho rovesciata e assimilata, fino a renderla autonoma, come accade per le sperimentazioni drammatiche di Stratford upon Avon. Sembra un concerto rock con un Puck che recita se stesso da quattro secoli e si è ormai annoiato. Diventa, allora, il regista di tutto: un vecchio in mezzo a due compagnie di attori, una diciamo istituzionale, quella della Lord Ciambellano, e l'altra di guitti, o meglio dilettanti geniali che preparano entrambe, scontrandosi e non. Nascono, così, due spettacoli da recitarsi nel giardino della dimora di un Capo, che potrebbe essere un sindaco o un miliardario. Puck volteggia su una specie di altalena che forse è la luna, mito dominante nel testo di Shakespeare, qui sospesa fra un cielo popolato di parole scritte che vanno e vengono come su una lavagna luminosa e un prato che si incupisce e apre strane botole e trabocchetti». Come ha amalgamato il suo eterogeneo cast? «Bottom, che qui si chiama Targa, è Enrico Brignano: si allena a recitare Piramo nella "lamentevole istoria" e intanto snocciola un "essere o non essere" demotico e riottoso, accompagnato in questo suo elucubrare da un merlo indiano di nome Cesare. Targa preso nella fascinazione notturna della luna sogna la prima attrice Titania, affidata a Serena Autieri, della compagnia del Lord Ciambellano, ma si dà il caso che la donna, delicata, poetica ed ecologista, entri nel sogno di Targa, e viceversa. Il risultato sarà eroticamente catastrofico anche perché il primo attore Oberon, restituito da Giampiero Ingrassia, entra quasi per errore nel gioco, sognando, forse, di trovarvi la sua antica amante Ippolita. I quattro innamorati sono intercambiabili». Cosa le piace di questa sua nuova invenzione scenica? «Tradurre è tradire, si sa. Credo di aver esaltato l'idea di mostrare un Puck finalmente Diavolo e Arlecchino. Le maschere rivelano l'animo con l'aria di nascondere la fisionomia. Le musiche originali di Marco di Gennaro spaziano, come gli abiti e i costumi di Elena Mannini, dal quotidiano al simbolico, dalla danza rituale di Gloria Pomardi al pieno orchestra bernsteiniano. C'è, insomma, un pastiche post-moderno nel bosco-labirinto, fra botole e lune basculanti, dello scenografo Alessandro Chiti». Il pubblico di oggi è sensibile al teatro? «È pronto per accogliere necessarie innovazioni. Nel caso di questa rappresentazione, partecipa con energia. Persino alla prima abbiamo avuto ben quindici applausi a scena aperta. Ritengo, però, quanto mai urgente recuperare l'aspetto creativo e artistico in un ambiente che rischia di appiattirsi sulla routine che non ha nulla di dire». Che legame ha con il palcoscenico? «Non mi sono mai calato in una parte, è un modo di esprimersi e di recitare che non mi interessa. So di essere sempre Albertazzi, a prescindere dal personaggio, che diventa immediatamente una mia summa, come ora accade con Puck. Il teatro è di per sé una celebrazione, un sogno, e si colloca fra la parola del poeta e la storia di chi la diffonde. Ogni replica di questi giorni, per esempio, mi sembra una serata dedicata alla mia storia con Shakespeare». Non le mancano gli impegni istituzionali, dopo la direzione artistica del Teatro di Roma? «Non amo le situazioni ufficiali e burocratiche anche se ho vissuto una piacevole e gratificante avventura con lo stabile romano. In questo momento sono consigliere dell'Eti con l'incarico di occuparmi delle scuole di teatro italiane e intendo adoperarmi per una corretta formazione dei giovani. Vorrei frenare lo sperpero di finti talenti». C'è un consiglio speciale che rivolge agli attori emergenti? «Mi batto per "disinsegnare". È assurdo imporre schemi recitativi uniformi e tentare di fissare in categorie un'arte libera ed eversiva come il teatro. Una finalità importante e proficua sarebbe, invece, la ricerca e l'incoraggiamento di un attore creativo, che insegua la sua natura e la sua voluttà espressiva. Le nuove generazioni devono possedere e coltivare i loro linguaggi e il nostro compito è aiutarli a uscire dall'anonimato, non stimolarli a imitare il nostro percorso».

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