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di MARCO ONOFRIO Il rapporto fra Totò e Pasolini, sullo ...

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Toccò a Pasolini, dunque, cogliere e firmare il testamento artistico di uno dei più grandi, geniali e innovativi attori del Novecento. Totò restava persona, malgrado i personaggi attraversati con la propria maschera: una persona che non si credeva mai personaggio. Era un "uomo", nel vero senso del termine: un uomo dolcissimo, soave, profondamente buono. Pieno di voglia di vivere. Allegro. Surreale. Sentimentale. Riservato. Elegante. Malinconico. Poeta di intuizioni e sfumature. E poi, generosissimo. Proprio quest'anima candida e malinconica da Pierrot, questo rovescio triste della marionetta disarticolata che impazza sulla scena, attendevano di essere colte e pienamente valorizzate. Ci pensò Pier Paolo Pasolini. E fece appena in tempo, perché Totò - anziano, stanco e quasi completamente cieco - era purtroppo alla fine dei suoi giorni. Dal sodalizio nasce un trilogia: un lungometraggio in bianco e nero ("Uccellacci e Uccellini") e due cortometraggi a colori ("La terra vista dalla luna", episodio del film "Le streghe", e "Che cosa sono le nuvole", episodio del già ricordato "Capriccio all'italiana"). Si conobbero a casa di Totò, in viale Bruno Buozzi. Pasolini si presenta con Ninetto Davoli, che vestirà i panni del figlio di Totò sia in Uccellacci che in La terra vista dalla luna. Fu Roma, dunque, il teatro del loro incontro. Una città che entrambi amavano, sia pure in modo diverso. La città che li aveva accolti come reietti (Totò all'inizio degli anni Venti, spiantato attore in cerca di scritture; Pasolini nel gennaio 1950, fuggitivo per lo scandalo che lo aveva coinvolto in Friuli, a Casarsa); che li aveva visti patire fame, freddo, stenti e umiliazioni; che aveva assistito e favorito il loro successo e il conseguente crescendo "borghese". Roma dunque, che Pasolini aveva amato fin dal primo istante, folgorato dalla sua dimensione proletaria e carnale sino a farne protagonista assoluta delle sue opere narrative, poetiche e cinematografiche. Roma, che aveva assistito ai primi, tribolati passi di Totò nel mondo del varietà, e poi ai suoi primi trionfi. La Roma degli stabilimenti cinematografici, dove Totò arriverà a girare anche 6 film l'anno. La Roma piccolo borghese che fa da sfondo a tanti suoi personaggi. La Roma che Totò riesce addirittura a "vendere" (fontana di Trevi) vittima un ingenuo emigrato, Decio Cavallo, in una mitica scena di "Tototruffa '62", con Nino Taranto. La Roma infine in cui si sposa (nella chiesa di San Lorenzo in Lucina) e in cui assapora la gioia della paternità. Roma, Totò e Pasolini, dunque. Una città magica e due grandi poeti, due lucidi scrutatori dell'animo umano. Il Totò guidato da Pasolini è grande dal punto di vista delle sfumature drammatiche e, in questo, assolutamente congeniale al suo cinema di poesia. Totò era grato a Pasolini perché lo stava inventando come nuovo, riuscendo a cogliere "fin nelle sfumature" l'essenza della sua arte e della sua personalità. Gli dava inoltre la credibilità culturale che era quasi sempre mancata ai suoi film, talvolta invero un po' raffazzonati, costruiti precariamente sul puntello stabile del suo genio creativo, troppo basati sul suo estro di improvvisatore. Totò, infatti, era stato letteralmente massacrato dai critici. Solo con Pasolini arrivarono, ormai quasi insperati, la "riabilitazione" artistica e i tardivi riconoscimenti, come il prestigioso Nastro d'argento che gli venne assegnato nel 1966.

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