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di RAFFAELLO UBOLDI Lo dice, lo ripete ai quattro venti, ...

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Ma davvero il suo sarà un addio, e non le mancheranno le canzoni, il pubblico, il piacere d'essere Charles Aznavour? «Rispondo che sono nato a Parigi il 22 maggio del 1924, il che significa che il prossimo mese di maggio compirò ottantaquattro anni, e a questa età è d'obbligo sapere quando è arrivato il momento di fare l'ultimo inchino, di mettere il punto finale alla propria carriera d'artista». Henri Salvador ha novant'anni e continua a esibirsi… «Lui ha una vitalità che io forse non ho. Comunque… diciamo che qualche volta magari in televisione mi vedrete ancora». Cambiamo argomento: che cosa prova un cantante in scena? «Diciamo che non si è sicuri del successo prima di una canzone o due, anche perché non è per niente naturale cantare davanti a qualche migliaio di spettatori. Poi, via via, il rapporto si consolida». Sessant'anni dedicati alla canzone. Che cosa ne ha tratto sul piano personale? «Delle riflessioni, delle domande, qualche risposta. Che cos'è il successo se non il risultato di una allucinazione collettiva? E cos'è più importante, la notorietà o l'amore del pubblico? Io rispondo l'amore del pubblico». Come si conquista un tale amore? «Vivendo il più naturalmente possibile. Io vado al supermercato, guido la mia automobile, mi si può incontrare al caffè. Insomma, sono uno che viene dal popolo». Lei è armeno come origine famigliare … «Per questo mi sono spesso battuto per la libertà dell'Armenia. Ecco, sono anche uno che non dimentica le proprie radici». Molte delle sue canzoni le ha scritte lei, parole e musica… «Lavoro molto, mi alzo alle 6 del mattino, e alle 8 sono al pianoforte o alla mia scrivania. L'ispirazione non viene dal nulla, occorre scavare e scavare… Adoro comporre e scrivere, ma non ho rifiutato il contributo di grandi parolieri di Jacques Plantel o Francoise Dorin per "La Boheme" o "Que c'est triste Venise"». Esiste la canzone perfetta? «Certamente, pensiamo soltanto a "La mer" di Charles Trenet, o ad alcune canzoni di Yves Montand, Jacques Breil, Gilbert Becaud, Leo Ferrè e naturalmente di Edith Piaf, "Santa Piaf", come la chiamavo io». Da dove le viene l'ispirazione? «Dal dizionario, sono un grande lettore di dizionari. Da Racine, Moliere, Corneille, Proust, che hanno già detto tutto quello che si poteva dire. E dalla gente incontrata per strada». Jean Cocteau diceva che una canzone d'amore dev'essere triste… «Triste no, malinconica sì. Lo dico perché l'amore può capitare che non duri in eterno. E questo a me dà un senso di malinconia». Quale l'aspetto peculiare della canzone francese? «La poesia, la canzone francese è indissolubilmente composta di musica e di parole che dicono qualcosa». Quello che lei ha detto nelle sue canzoni è una sorta di ritratto di Charles Aznavour? «È certo che alcune frasi rammentano qualche episodio della mia stessa vita. Ricordo "Mon emouvante amour". Ma non le dirò altro. Alla mia età è d'obbligo il pudore dei sentimenti». Mi dica il nome di una donna che avrebbe voluto amare… «Dalida. Ma ero piccolo per lei, sono alto appena 1,64».

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