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Il «realismo magico» di una musica dove l'America è ancora speranza

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Cercandola tra le pieghe di una musica che persiste nelle curvature del tempo, qualunque cosa accada. O perdersi nell'attesa del suo orizzonte - che in qualche modo non si avvicina mai. L'America ci sfugge, ogni volta che ci sentiamo pronti per buttare giù l'àncora davanti alle sue coste, sapendola oltre un'ultima foschia mattutina. Springsteen, a pensarci, è buon fratello d'arte del Crialese di "Nuovomondo": il primo ammassa nel suo magazzino ogni sorta di materiale adatto per la riscoperta del folk - o più latamente della canzone popolare. L'altro inventa un epos odissiaco per gli emigranti che sradicano i loro piedi dalla scabra terra di Sicilia per immergerli in quell'Oceano che li sballotta, li minaccia, non sempre li sostiene, e neppure li accoglie fino in fondo: c'è Ellis Island a dare il giudizio finale, il visto per quello che, oltre la Statua della Libertà, non sarà più un approdo, ma forse un naufragio spirituale, sociale, culturale. Il rockstar e il regista, chiamati a non disperdere la memoria di uno straniamento etnico, a difendere la dignità di chi ha chiuso la casa degli antenati in Patria per aprirne un'altra nella terra dove si spera scorrano fiumi di latte: ma l'abbondanza sarà spesso negata, e l'unico riparo potrebbe essere una catapecchia. A chi ha costruito l'America spaccandosi le mani, i due artisti dedicano opere immerse nel «realismo magico»: dove quello che si vede, o si ascolta dapprima non esisteva. Questo è il prodigio: si cantano le gesta di generazioni che hanno perso la propria identità per avvicinare la fortuna. Ma lo si fa con uno stile inedito, e una poetica che dapprima non eravamo stati in grado di cogliere, o di delineare a fondo. In questa sua tournée italiana (la più lunga di sempre, con ben sette concerti), Springsteen ha infatti chiarito il senso della sua operazione: ha impastato ingredienti ben noti - il rhythm & blues, il country, lo zydeco, il soul, il doo-wop, la canzone di protesta - dosandoli in una pietanza dai sapori inusitati, come un gourmet sopraffino: ti sembra di aver già assaggiato tutto, ma il retrogusto è quello che non ti aspetti. Con il suo talento, Bruce non si limita a riproporre la musica dei padri - dei folksinger, dei menestrelli, dei coristi di chiesa, degli avventurosi cantanti di strada - ma la reinventa: la spoglia e la riveste, la illumina appieno e poi si sofferma sui chiaroscuri. Come nessuno aveva mai saputo fare prima di lui. E al repertorio storico il Boss aggiunge il proprio, ma spesso una sua canzone la riconosci solo dal testo. A grandi linee, è la tecnica live utilizzata da Bob Dylan: che però ama stravolgere i suoi inni, volutamente mortificandoli per provocare se stesso e i suoi fans. Bruce invece esalta la vitalità di ogni brano, affidandola a quella «piccola città» di virtuosi della Seeger Sessions Band che lo accompagna sul palco: e come l'acqua trova la strada su ogni fessura, loro individuano la vita segreta di ogni partitura, in una festa di violini, di fiati, di percussioni «povere», di cori che vivaddio fanno di ogni show un tripudio per l'anima più incarognita. Anche a Roma Springsteen non ha rinunciato a sorprendere, a offrire scalette non cristallizzate, ma aperte al gioco, all'epifania, alla trepidazione dell'ultimo momento. Neppure i suoi musicisti possono essere certi di cosa suonare, in sequenza, perché la lista consegnata dal capo dieci minuti prima di entrare in scena può essere modificata in corsa. La partenza è quella forse a lui più cara, di questi tempi: entra in penombra, dietro di lui un tramonto rosso fuoco della prateria, un «ciao Roma» e poi la storia di "John Henry", l'operaio che preferisce morire di fatica pur di non soccombere all'automatizzazione del lavoro. Travolgente, da quel momento e per le successive due ore e mezza: le riletture delle ballate di eroi noti e misconosciuti dell'epopea culturale americana si mescolano alle sue perle. Tra queste ult

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